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23 ottobre 2023 1 23 /10 /ottobre /2023 06:59

"La morte e il morire" di Elisabeth Kubler Ross è stato per me una lettura di fondamentale importanza. I tardi anni Settanta (dalla conclusione dei miei studi di Medicina) e i primi anni anni Ottanta (che hanno coinciso con il conseguimento della specializzazione in Psichiatria e il percorso di formazione psicoanalitica che poi per vicissitudini personali abbandonai) sono stati caratterizzati da una serie di letture extra-curriculari e che derivavano da una mia necessità interiore di elaborare il lutto della improvvisa e traumatica scomparsa di mio padre. Un mio filone di letture, portato avanti in modo febbrile e ossessivo, fu costituito da una serie di saggi sulla morte e sul morire e fu così che, appunto, mi imbattei nel testo della Kubler Ross.

Maurizio Crispi

Elizabeth Kubler Ross, On Death and Dying

Elisabeth Kubler-Ross, medico psichiatra di origine svizzera, viene considerata la fondatrice della psico-tanatologia, ed anche uno dei più noti esponenti dei cosiddetti "death studies" in cui l'oggetto dell'attenzione non è tanto la morte in sé, quanto piuttosto il morire, inteso come "processo", processo affrontato con laica lucidità al di fuori di qualsiasi cornice religiosa pre-costituita.

Il modello elaborato dalla Kubler-Ross è servito a creare una nuova attenzione sui processi del morire (all'interno di categorie psicologiche) dopo che con la perdita di influenza delle organizzazioni religiose e del supporto della fede, il morire era stato in qualche modo de-umanizzato e relagato nel chiuso degli ospedali.

Il modello a cinque fasi del morire, elaborato nel 1970, nel suo studio fondamentale e pioneristico On Death and Dying (La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976. 13ª ed.: 2005) rappresenta tuttora uno insostituibile strumento che permette di capire le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnosticata una malattia terminale, ma ha una portata ben più ampia, poiché gli psicoterapeuti hanno constatato che esso è valido anche ogni volta che ci sia da elaborare un lutto (o una perdita), anche se esclusivamente - o prevalentemente - limitato al livello affettivo e/o ideologico.

E' da sottolineare che si tratta di un modello a fasi e non a stadi, per cui le fasi possono anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo, con diversa intensità, e senza un preciso ordine, dato che le emozioni non seguono regole particolari, ma anzi così come si manifestano, così svaniscono, oppure si presentano magari miste e sovrapposte.

Ed ecco di seguito le cinque fasi, descritto dalla Kubler-Ross, con ampi riferimenti a casi di pazienti terminali che lei stessa ebbe modo di seguire nel loro percorso di avvicinamento alla morte.

Fase della negazione o del rifiuto: “Ma è sicuro, dottore, che le analisi sono fatte bene?”, “Non è possibile, si sbaglia!”, “Non ci posso credere” sono le parole più frequenti di fronte alla diagnosi di una patologia organica grave; questa fase è caratterizzata dal fatto che il paziente, usando come meccanismo di difesa il rigetto dell' esame di realtà, ritiene impossibile di avere proprio quella malattia. Molto probabilmente il processo di rifiuto psicotico della verità circa il proprio stato di salute può essere funzionale al malato per proteggerlo da un’eccessiva ansia di morte e per prendersi il tempo necessario per organizzarsi. Con il progredire della malattia tale difesa diventa sempre più debole, a meno che non s’irrigidisca raggiungendo livelli ancor più psicopatologici.
Fase della rabbia: dopo la negazione iniziano a manifestarsi emozioni forti quali rabbia e paura, che esplodono in tutte le direzioni, investendo i familiari, il personale ospedaliero, Dio. La frase più frequente è “perché proprio a me?”. È una fase molto delicata dell’iter psicologico e relazionale del paziente. Rappresenta un momento critico che può essere sia il momento di massima richiesta di aiuto, ma anche il momento del rifiuto, della chiusura e del ritiro in sé.
Fase della contrattazione o del patteggiamento: in questa fase la persona inizia a verificare cosa è in grado di fare, ed in quale progetti può investire la speranza, iniziando una specie di negoziato, che a seconda dei valori personali, può essere instaurato sia con le persone che costituiscono la sfera relazione del paziente, sia con le figure religiose. “se prendo le medicine, crede che potrò vivere fino a…”, “se guarisco, farò…”. In questa fase, la persona riprende il controllo della propria vita, e cerca di riparare il riparabile.

 

Elisabeth Kubler Ross, La morte e il morire, La Cittadella Editrice

Fase della depressione: rappresenta un momento nel quale il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire e di solito si manifesta quando la malattia progredisce ed il livello di sofferenza aumenta. Questa fase viene distinta in due tipi di depressione: una reattiva ed una preparatoria. La depressione reattiva è conseguente alla presa di coscienza di quanti aspetti della propria identità, della propria immagine corporea, del proprio potere decisionale e delle proprie relazioni sociali, sono andati persi. La depressione preparatoria ha un aspetto anticipatorio rispetto alle perdite che si stanno per subire. In questa fase della malattia la persona non può più negare la sua condizione di salute, e inizia a prendere coscienza che la ribellione non è possibile, per cui la negazione e la rabbia vengono sostituite da un forte senso di sconfitta. Quanto maggiore è la sensazione dell’imminenza della morte, tanto più probabile è che la persona viva fasi di depressione.
Fase dell’accettazione: quando il paziente ha avuto modo di elaborare quanto sta succedendo intorno a lui, arriva ad un’accettazione della propria condizione ed a una consapevolezza di quanto sta per accadere; durante questa fase possono sempre e comunque essere presenti livelli di rabbia e depressione, che però sono di intensità moderata. In questa fase il paziente tende ad essere silenzioso ed a raccogliersi, inoltre sono frequenti momenti di profonda comunicazione con i familiari e con le persone che gli sono accanto. È il momento dei saluti e della restituzione a chi è stato vicino al paziente.
È il momento del “testamento” e della sistemazione di quanto può essere sistemato, in cui si prende cura dei propri “oggetti” (sia in senso pratico, che in senso psicoanalitico).
La fase dell’accettazione non coincide necessariamente con lo stadio terminale della malattia o con la fase pre-morte, momenti in cui i pazienti possono comunque nuovamente sperimentare diniego, ribellione o depressione.

 

Elisabeth Kubler Ross con Madre Teresa di Calcutta

L'autrice. Elisabeth Kübler-Ross (Zurigo, 8 luglio 1926 – Scottsdale, 24 agosto 2004) è stata una psichiatra svizzera. Viene considerata la fondatrice della psicotanatologia e uno dei più noti esponenti dei death studies.

Dopo gli studi in Svizzera, nel 1958 si è trasferita negli USA dove ha lavorato per molti anni presso l'Ospedale Billings di Chicago. Dalle sue esperienze con i malati terminali ha tratto il libro La morte e il morire pubblicato nel 1969,[1] che ha fatto di lei una vera autorità sull'argomento. Celebre la sua definizione delle cinque fasi di reazione alla prognosi mortale: diniego (denial and isolation), rabbia (anger), negoziazione (bargaining), depressione (depression), accettazione (acceptance). Chiave del suo lavoro è la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica.

Usava anche praticare la tecnica dell'uscita fuori da corpo (OBE), che aveva appreso da Robert A. Monroe. Negli anni settanta ha tenuto numerosi seminari e conferenze.


Le sue opere

  • La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976 (edizione originale 1969). 17ª ed.: 2015. ISBN 88-308-0247-6; ISBN 978-88-308-0247-6.
  • Domande e risposte sulla morte e il morire. Essere vicini a chi è prossimo a morire: alleviarne la sofferenza fisica e morale con rispetto della loro dignità umana, del bisogno di verità e di solidarietà, red./studio redazionale, 1981 (edizione originale 1974).
  • La morte e la vita dopo la morte. La nascita ad una nuova vita, Roma, Edizioni Mediterranee, 1991 (edizione originale 1983). ISBN 88-272-0009-6; ISBN 978-88-272-0009-4. Anteprima limitata. Nuova ed.: La morte e la vita dopo la morte. "Morire è come nascere", 2007. ISBN 88-272-1895-5; ISBN 978-88-272-1895-2. Anteprima limitata.
  • La morte è di vitale importanza. Riflessioni sul passaggio dalla vita alla vita dopo la morte, Gruppo Editoriale Armenia S.p.A., 1997 (edizione originale 1995).
  • Impara a vivere impara a morire. Riflessioni sul senso della vita e sull'importanza della morte, Gruppo Editoriale Armenia S.p.A., 2001 (edizione originale 1995).
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21 ottobre 2023 6 21 /10 /ottobre /2023 08:13

Questo mio scritto è dell'ottobre 2010.
L'ho rinvenuto casualmente nel mio profilo Facebook e, per quanto abbia ricercato, non ve n'é traccia nel mio blog.
Evidentemente; non l'ho mai trasferito in questa sede.
Lo pubblicai il 21 ottobre del 2010, un giorno dopo il ricorrere del primo onomastica della mamma dopo la sua morte:
Durante tutto quell'anno - ed anche in quelli successivi - scrissi tante cose, come palese e tangibile segno di un lungo e faticoso processo di elaborazione del lutto.

Maurizio Crispi

Una sconfinata giovinezza (Pupi Avati, 2010)

Qualche giorno fa, mi è accaduta una cosa strana.

Mi son messo davanti al PC, come di consuetudine e avrei voluto scrivere qualcosa, non sapendo ancora cosa.

Nulla di strano: mi capita spesso.

Mi piace l'idea di scrivere ogni mattina qualcosa, in assenza dell'esercizio di un compito specifico.

Solo per il puro piacere della scrittura.

Mi sono confrontato tuttavia con il vuoto totale.

Non c'era nulla che mi venisse in mente, non una traccia per quanto esile, non uno spunto.

Anche guardando vecchi scritti da rendere eventualmente visibili nella rete, in uno dei miei blog, avvertivo una strana ed inquietante svogliatezza.

Dopo un po' di questa sterile permanenza davanti allo schermo vuoto del PC, improvvisamente ostile, me sono andato a correre con il cane.

Durante questa vivificante attività ho riflettuto parecchio e sono giunto alla conclusione che ero sotto l'effetto del film visto il giorno prima, Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati.

La trama è nota - e semplice, anche - tratta dall’opera letteraria omonima dello stesso regista.

 

E' la storia di Lino Settembre, un giornalista sportivo (Fabrizio Bentivoglio) molto noto ed apprezzato, la cui mente improvvisamente comincia a deragliare a causa dei primi sintomi del Morbo di Alzheimer.

Vi si dipana dolente il racconto delle vicissitudini di quest’uomo e della sua compagna Chicca, un’affermata ricercatrice universitaria (Francesca Neri), 

Nell'Alzheimer è colpito l'individuo, la cui mente si va ritirando sempre di più sino ad un nucleo primitivo di memorie forti ed incancellabili, ma ad essere interessati sono anche la coppia e la famiglia nella sua globalità perché il Sé relazionale e lavorativo viene colpito insidiosamente con improvvisi blackout o con imbarazzanti deficit performativi.

Per quanto il soggetto colpito cerchi di mascherare il progredire delle sue mancanze, queste ad un certo punto esplodono, diventando evidenti in modi imprevedibili, sicché ad essere colpita è anche l'identità sociale sua e quella della propria famiglia.

C'è lo spegnersi progressivo delle capacità e delle abilità, anche di quelle acquisite e ben consolidate: è come se tutto, a poco a poco, si sgretolasse e poi prendesse a franare sempre più precipitosamente.

A volte la malattia progredisce con una progressione continua, a volte invece a balzi con crolli rovinosi, ai quali segue una lieve ripresa, ma mai un recupero allo stato antecedente.

Per quanto il soggetto cerchi di mascherare (e di negare) l’evidenza - anche a se stesso - la deriva è inesorabile, sino al momento in cui perderà definitivamente sè stesso e si perderà in un metaforico paesaggio nebbioso, alla ricerca di qualcosa che lo leghi alla sua infanzia perduta.

 

A differenza che nel duro compito di adattamento alla sofferenza e alla malattia cui deve andare incontro l’individuo affetto da cancro terminale, il processo di elaborazione qui è ridotto ai minimi termini: delle cinque “tipiche” fasi descritte da Elisabeth Kubler-Ross (in La morte e il morire, nel 2005 alla sua 13^ edizione), al malato di Alzheimer rimane soltanto la possibilità
di sperimentare le prime due che - turbolente e tormentose  - sono quella della negazione (con una serie di strategie per l’occultamento del/i sintomo/i) e quella della rabbia che, spesso, si traduce in reazioni di violenta aggressività nei confronti di familiari o amici che, di fronte all’evidenza della malattia, cercano di essere d’aiuto.
Forse nell'Alzheimer, non c’è quell'evoluzione successiva sino alla serena accettazione, come accade nei malati di cancro che abbiano svolto un percorso di elaborazione interiore, perché qui quella che si spegne e finisce con il disattivarsi è proprio la mente dell’individuo, mentre il corpo rimane molto più a lungo a segnare il passo, quando la mente consapevole lo ha già abbandonato.

Cosa resta come esito di questo processo? L'ancoraggio ad alcuni ricordi, sempre più remoti e collegati a forti emozioni che rimangono come esile traccia dell'identità adulta di un tempo (o, meglio, delle sue fondazioni).

Nel presente, il malato di Alzheimer regredisce sempre più alla condizione di un bambino, in una dimensione che prima pare senza tempo e che comincia a scivolare indietro verso uno stato della mente sempre più indifferenziato, sino a che quello che è sopravvissuto al deterioramento come un tessuto ormai logoro e sfilacciato, improvvisamente svanisce e con esso l'individuo medesimo, il cui corpo rimane indietro come un guscio vuoto.

Ai mariti, ai compagni di vita, alle mogli, ai figli in questo percorso malinconico all’indietro verso una giovinezza e un’infanzia “sconfinate” rimane soltanto la possibilità di interagire utilizzando quei pochi spazi di manovra ancora preservati, accettando il fatto che il proprio congiunto stia rivivendo una seconda infanzia e che, dopo questa moratoria più o meno breve, la sua mente svanirà per sempre.

Con quale parte della mete (e nel senso più lato della psiche, compreso il livello emozionale, dunque) si può interagire nelle fasi più avanzate della malattia?

Forse con il gioco, commisurato con l'età mentale in cui l'individuo sta sostando prima di riprendere a scendere la china e con gli esercizi di memoria, anche questi adeguati alla fase involutiva: sembra assodato che l'esercizio costante delle facoltà mnesiche possa aiutare a trattenere un po' più a lungo i ricordi (e questo vale naturalmente per tutti noi, anche per chi non è affetto da Alzheimer).

Il film di Avati contiene tutto questo, descritto con tenera levità, con delicatezza, sino alle immagini finali di un paesaggio annebbiato in cui il protagonista si aggira sperduto nelle nebbie della sua mente alla ricerca dell'ultimo ricordo vivo in lui e poi quelle di un bellissimo prato in piena luce, appena tosato, in cui lui cammina con Perché, il cane che aveva amato da ragazzo, sino alla dissolvenza finale.

Il film mi ha messo di fronte ad alcuni interrogativi, che sono quelli comuni a chi, avendo superato alcuni fondamentali giri di boa della propria cronologia, molto naturalmente si trova ad interrogarsi su cosa l'aspetti, su come si dipanerà la propria esistenza negli anni prossimi venturi, mentre - al tempo stesso - si ritrova a rivisitare sempre più spesso il proprio passato, angustiato del fatto che una parte dei ricordi di eventi del trascorsi, che prima apparivano così saldi, si vadano dileguando e si facciano via via più evanescenti ed imprecisi.

Per questo motivo, c'è forte il desiderio di poter trasmettere tutto questo, passando di mano il testimone dei propri ricordi, con dentro quanti più pezzi sia possibile della propria vita.

A volte, non c'è nessuno a cui indirizzare questo lascito: verrebbe voglia di lanciare una capsula del tempo, a postuma memoria di sé, piena di carte, di oggetti, di piccole storie: ma anche questo il più delle volte rimane un sogno velleitario.

Spesso, impotenti, attendiamo che i nostri giorni trascorrano e non facciamo nulla per fissare i ricordi del tempo che fu: forse, vorremmo che ci fosse qualcuno vicino a noi a cui di storie e ricordi che vengono da un passato remoto importi qualcosa.

La regola è che una cosa simile non capiti quasi mai.

Non ci si deve illudere.

Tante opere letterarie nascono proprio con questo intento che è quello di preservare nel tempo qualcosa (frammenti o un intero affresco) appartenente al passato dello scrittore.

Alcuni lo fanno in maniera esplicita con delle scritture diaristiche, altri invece hanno la capacità di trasformare tutto in opera letteraria: La recherche di Marcel Proust è un impareggiabile monumento alla memoria del tempo perduto, spesso citata e studiata dagli studiosi della Memoria.

 

Ci si chiede anche come finiremo: ed è normale, in fondo, che questa domanda ogni tanto faccia capolino da qualche angolo della nostra mente.

 

Ci sono cose che non fanno paura, perché abbiamo avuto modo di conoscerle direttamente, essendone testimoni.

Ciò che non conosciamo, invece, ci fa paura e ci paralizza.

 

Per esempio, mi ritrovo a pensare al modo in cui i miei genitori se ne sono andati.

Ho visto mio padre morire per un incidente aereo, quando ancora era nel pieno delle sue forze e delle sue energie, avendo ancora davanti a sé la prospettiva di una lunga vita laboriosa.

Mia madre, invece, è stata longeva, ma ad un certo punto benché la sua mente fosse lucida, il corpo non l'ha seguita più: ha cominciato a indebolirsi troppo velocemente e lei, pur positivamente legata alla vita (gioiosamente, ma anche con un fortissimo senso del dovere), ad un certo punto ha quasi deciso di andarsene, ritirandosi dalla vita, quando ha compreso che non poteva più essere d’aiuto e  anzi creava problemi e difficoltà con la sua mancanza di autonomia.

Lucidamente, nei suoi ultimi giorni, vagheggiava l’Alaska e il grande Nord, ricordando di un romanzo che le avevo fatto leggere dei miei (Il paese dalle ombre lunghe di Hans Ruesch) in cui si parlava della maniera di morire degli Eschimesi che, quando sono divenuti incapaci di essere autonomi e sentono di essere solo di peso, si allontanano nel ghiaccio sconfinato e nella neve per sedersi lontano da tutto e da tutti e qui addormentarsi dolcement,  trapassando così in un altro mondo. Ci diceva: Viva l’Alaska! oppure Portatemi fuori nella neve, con una sedia e una coperta magari e lasciatemi lì ad addormentarmi tranquilla nel freddo.

E, poi, se ne è andata, quando ha deciso lei: questa è stata la mia impressione e nessuno potrà mai convincermi del contrario.

Altri miei parenti sono deceduti per accidenti neuro-vascolari, in cui il danneggiamento neuromotorio è andato avanti di pari passo con il deterioramento mentale.

Tutto questo mi è noto.

Papà e mamma mi hanno dato due diversi modelli del morire: papà è stato il primo ad andarsene e lui ha avuto il beneficio della morte che desiderava, cioè uscire di scena in un attimo senza dover subire nessuno dei fenomeni legati all'invecchiamento. E’ stata la sua una morte repentina ed improvvisa che lo ha colto di sorpresa senza che nemmeno se ne accorgesse. Quando ero ancora molto piccolo, mi disse, dopo aver appreso della morte di un suo amico e collega giornalista trovato morto per infarto alla poltrona della sua scrivania: E’ così che mi piacerebbe morire!

Mamma, invece, ha vissuto vigorosa e piena di forze sino a pochi mesi dalla sua morte e, sino alla fine, ha lottato strenuamente per non venir meno ai suoi compiti e a ciò che, nella sua vita, aveva ritenuto prioritario. Poi, quando ha capito che non ce la faceva più a stare al passo con il suo elevato standard e che sarebbe stata soltanto "di peso", s'è abbandonata al sonno e all’oblio. 
Sembrerebbe quasi incredibile dirla in questa termini, ma io che sono stato testimone del suo "transito" mi sono fatto una ferma convinzione che le cose siano andate proprio così.

Io non ho idea di come saranno i miei ultimi giorni e soprattutto di come avverrà la mia fine.

Come uscirò di scena?

Non lo so.

Anche se potessi saperlo, comunque, non vorrei saperlo.

Certo è tuttavia che l'Alzheimer attiva degli inquietanti fantasmi: e forse proprio per questo l’altra mattina non riuscivo a scrivere proprio nulla. Pensavo alla storia del film visto il giorno prima e il soffermarmi su di essa aveva un effetto ottundente su qualsiasi altra mia facoltà.

Non mi piacerebbe svanire nel modo tracciato in modo così dolente dal film di Avati: anche perché in un processo come questo – essendo intaccata la mente pensante - si perde la possibilità di dar testimonianza di ciò che accade e si perde, al contempo, la possibilità stessa dell’elaborazione del processo di decadimento che ci sta accadendo, come dicevo prima.

Da un certo momento in poi si svanisce e basta.

E tutto quello che sei stato prima non conta più.

 

Si finisce con il frammentarsi e con il franare dei propri ricordi personali, fino a che, anche davanti agli altri, di te, non rimane altro che un guscio vuoto: una figura che dapprima si sgrana e poi va in dissolvenza.

Si può lottare contro questa erosione della propria capacità di ricordare: Jonathan Franzen lo racconta a proposito del proprio padre in un denso amarcord (Jonathan Franzen, Il cervello di mio padre, in Come stare soli. Lo scrittore, il lettore e la cultura di massa, Einaudi, 2003).

 

"Una delle storie che intendo raccontare, quindi, mentre cerco di perdonare a me stesso la lunga cecità nei confronti della malattia di mio padre, riguarda la sua propensione a nascondere quella malattia, e il fatto che per parecchio tempo conservò un carattere abbastanza forte da riuscirci.

(…)

In un cassetto trovammo le prove di piccoli, furtivi sforzi per non dimenticare. C’era un mucchio di biglietti su cui aveva scritto l’indirizzo dei suoi figli, un indirizzo su ognuno, ripetuto su parecchi biglietti. Su un altro biglietto aveva scritto la data di nascita dei figli maggiori…" (ib. P. 31-32).



E questo ha scritto una lettrice (mio contatto su FB, dopo aver letto le mie parole

(OF) Mi hai commosso Maurizio, e ciò che scrivi potrei sottoscriverlo anche io. Ho visto, nella mia famiglia, come si muore di cancro (mia madre, in 2 mesi) e come si muore di Alzheimer (il marito di una zia) con un'agonia durata vent'anni che ha spazzato via (senza troppi favoleggiamenti) la sua vita personale e quella della sua famiglia. Per questo non sono andata a vedere il film di Avati: per quanto possa essere lucido e realistico il suo modo di rappresentare la malattia non mi sognerei mai di descrivere lo stato di chi si ammala di questa "cosa" orribile come un viaggio verso una "sconfinata giovinezza"... Dimenticare chi si è, regredire senza rimedio ad uno stato in cui non controlli neppure i bisogni e le funzioni primarie non ha nulla di "poetico"...Tutto questo mi mette addosso solo un'immensa tristezza e ti ringrazio per aver focalizzato nel tuo testo tanti aspetti sui quali anche io rifletto da tempo. Tu scrivi: "...vorremmo che ci fosse qualcuno vicino a noi a cui di storie e ricordi che vengono da un passato remoto importi qualcosa..."
Tanto basta per dirti GRAZIE…

Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, Garzanti, 2010
 

Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, Garzanti

(risguardo di copertina) Sono passati molti anni dal momento in cui si sono innamorati, ma Lino Settembre e sua moglie Chicca continuano ad amarsi. Anche se in apparenza sono persone molto diverse: lei insegna Filologia medievale all'università, lui è un popolare giornalista sportivo che parla spesso di calcio in televisione. Non hanno avuto figli, ma proprio questa mancanza ha finito per rendere ancora più solido e sereno il loro legame. Finché un'ombra non inizia a offuscare la mente di Lino. All'inizio solo momentanei cali d'attenzione, poi vuoti di memoria sempre più ampi e preoccupanti. E a quel punto che comincia la seconda vita di Chicca e Lino, un nuovo amore. Con le sue storie e i suoi personaggi, Pupi Avati sta tracciando uno straordinario autoritratto del nostro paese e del nostro tempo, rivelatore e commovente, tra costume e sentimenti, tra attualità e memoria. Il protagonista di Una sconfinata giovinezza, Lino, perde il contatto con il mondo che lo circonda ma trova rifugio nel ricordo dell'infanzia, nelle sue emozioni e nei suoi profumi. E Pupi Avati, nel raccontare una vicenda che affronta temi di drammatica urgenza, ci sa emozionare e sorprendere.

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18 ottobre 2023 3 18 /10 /ottobre /2023 06:41
Margherita Nani, L'ospite

Tanto si è scritto sui campi di concentramento, su quelli di sterminio, sulla Shoah, ma sempre Auschwitz si pone all'apice della parabola mortifera del Nazismo e del suo progetto di sterminio.
Auschwitz, per motivi diversi, è divenuto l'emblema della Shoah.
Molte delle testimonianze dei sopravvissuti, a partire - per quel ci riguarda - da quella di Primo Levi, riguardano appunto Auschwitz che produsse al suo interno un ulteriore abominio, poiché vi si creò lo spazio per le turpi gesta di un medico delle SS, Joseph Mengele, sadico e torturatore in nome di una falsa concezione della scienza medica.

Questi operò ad Auschwitz, risultando essere particolarmente attivo ed instancabile nelle efferate selezioni in cui si decideva tra chi poteva vivere ancora per un po' e chi invece doveva essere subito messo a morte, ma - nello stesso tempo - utilizzò quelle selezioni sulle rampe per appropriarsi di coppie di gemelli di tutte le età sui quali compiva poi i suoi atroci esperimenti.

Venne per questo denominato l'Angelo della Morte o anche Dottor Morte: nelle sue attività pseudo-mediche cooptò dei deportati ebrei, rendendoli in qualche complici delle sue atrocità in una sorta di perverso patto per la vita.

Margherita Nani, nella sua opera L'Ospite. Le anatomie di Joseph Mengele (Editore Brioschi, 2019) ci racconta in forma romanzata appunto di Mengele durante il suo esilio brasiliano nella cittadina di Candido Godoi (nel cuore della selva brasiliana e che successivamente venne definita "la cittadina dei gemelli ariani di Joseph Mengele"), dove incontra un'adolescente, Pia, della quale si invaghisce.

Inizia così per lui un percorso di rivisitazione della sua storia personale: ma il suo abominio non può essere cancellato, poiché egli - Mengele - fu l'essenza stessa del Male ed interprete luciferino (e traditore, per questo) della deontologia professionale medica.

Quindi, nel romanzo della Nani, c'è la storia di un impossibile riscatto, in quanto il passato di atrocità e di crudeltà non potrà mai essere cancellato.

Mengele non venne mai catturato né tanto meno processato per i suoi crimini. Ciò è il motivo che ha portato molti narratori e cineasti ad ipotizzare quali siano state le sue possibili traiettorie di vita. Come racconta Oliver Guez, in un'altra narrazione biografica del 2018, La scomparsa di Joseph Mengele (Neri Pozza) Mengele non venne nemmeno sepolto. Le sue ossa vennero usate per scopi di studio come egli aveva fatto con le sue vittime.
 

Il libro di Margherita Nani merita sicuramente di essere letto.

 

(Dal risguardo di copertina) È il 1955 quando a Candido Godoi, nel cuore del Brasile, arriva un tedesco in cerca di una stanza in affitto. La famiglia Souza lo accoglie e Pia, la figlia adolescente, è fin da subito attratta dal fascino di quello straniero riservato e imperscrutabile, che a sua volta non potrà rimanere indifferente alla vitalità e all'innocente purezza della ragazza. Nessuno ha il minimo sospetto che l'ospite è in realtà il medico nazista Josef Mengele. In una serie di flashback e in un alternarsi di realtà storica e finzione letteraria, emerge il ritratto di un uomo la cui malvagità impedisce qualsiasi tentativo di comprensione. E Pia riuscirà a cogliere forse soltanto un frammento della complessa natura del dottor Mengele. In passato aveva tentato di farlo Irene, la moglie tanto innamorata quanto respinta dall'uomo in cui aveva inutilmente cercato tracce di un'anima. E poi Teresa, la ragazza ebrea destinata per anni ad affiancare la morte in persona nel campo di sterminio di Auschwitz. Cosa ha rivelato di sé Josef Mengele a ciascuna di loro? In questa biografia romanzata, l'ospite di Candido Godoi non troverà la giusta punizione, ma nemmeno quella pace tanto a lungo inseguita.

 

(gennaio 2020)

Oliver Guez, La scomparsa di Joseph Mengele, Neri Pozza

Oliver Guez, La scomparsa di Joseph Mengele (nella traduzione di M. Batto), Nei Pozza (Collana Bloom), 2018

 

Finalista al Premio Strega Europeo 2018.

Vincitore del prestigioso Prix Renaudot, La scomparsa di Josef Mengele si immerge fino in fondo nel cuore di tenebra del secolo trascorso, tra vecchi nazisti, agenti del Mossad, dittatori da operetta e attori di un mondo corrotto dal fanatismo.

(soglie del testo) «Olivier Guez si immerge nella realtà storica, la cristallizza nella vita individuale, nella carne e nel sangue di un uomo di cui niente può giustificare l’esistenza». - Le Monde

«Sono pagine secche come uno sparo, senza una parola in più del necessario, per narrare l'orrendo esilio di uno sterminatore». - Andrea Kerbaker, Tuttolibri - La Stampa

«Olivier Guez ci dà con il suo La scomparsa di Josef Mengele il tassello che mancava alla sterminata letteratura su questo infame individuo». - Corrado Augias, il venerdì di Repubblica

«Un’arida ed efficace tessitura letteraria che comincia subito dopo la pagina più buia della storia e pone il lettore di fronte a verità inquietanti». - Francesca Frediani, D la Repubblica

«Olivier Guez ci restituisce, con stile asciutto e senza bisogno di aggettivi, il contrappasso di un uomo braccato e vittima delle sue nevrosi». - Gigi Riva, L’Espresso

Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si affievolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si eclissa e alcuni uomini tornano a propagare il male.

(risguardo di copertina) Buenos Aires, giugno 1949. Nella gigantesca sala della dogana argentina una discreta fetta di Europa in esilio attende di passare il controllo. Sono emigranti, trasandati o vestiti con eleganza, appena sbarcati dai bastimenti dopo una traversata di tre settimane. Tra loro, un uomo che tiene ben strette due valigie e squadra con cura la lunga fila di espatriati. Al doganiere l’uomo mostra un documento di viaggio della Croce Rossa internazionale: Helmut Gregor, altezza 1,74, occhi castano verdi, nato il 6 agosto 1911 a Termeno, o Tramin in tedesco, comune altoatesino, cittadino di nazionalità italiana, cattolico, professione meccanico. Il doganiere ispeziona i bagagli, poi si acciglia di fronte al contenuto della valigia piú piccola: siringhe, quaderni di appunti e di schizzi anatomici, campioni di sangue, vetrini di cellule. Strano, per un meccanico. Chiama il medico di porto, che accorre prontamente. Il meccanico dice di essere un biologo dilettante e il medico, che ha voglia di andare a pranzo, fa cenno al doganiere che può lasciarlo passare. Cosí l’uomo raggiunge il suo santuario argentino, dove lo attendono anni lontanissimi dalla sua vita passata. L’uomo era, infatti, un ingegnere della razza. In una città proibita dall’acre odore di carni e capelli bruciati, circolava un tempo agghindato come un dandy: stivali, guanti, uniforme impeccabili, berretto leggermente inclinato. Con un cenno del frustino sanciva la sorte delle sue vittime, a sinistra la morte immediata, le camere a gas, a destra la morte lenta, i lavori forzati o il suo laboratorio, dove disponeva di uno zoo di bambini cavie per indagare i segreti della gemellarità, produrre superuomini e difendere la razza ariana. Scrupoloso alchimista dell’uomo nuovo, si aspettava, dopo la guerra, di avere una formidabile carriera e la riconoscenza del Reich vittorioso, poiché era… l’angelo della morte, il dottor Josef Mengele.
 

Robert Jay Lifton, I Medici nazisti, Rizzoli

Qualcuno ha detto che "Ippocrate morì ad Auschwitz". Vi è, al riguardo, un lungo saggio scritto da Robert Jay Lifton e fondato su un'enorme mole di dati ricavati da interviste rilasciate direttamente all'autore )e ottenute, in taluni casi, con molte difficoltà, in considerazione della reticenza a raccontare) da coloro che furono medici al tempo del nazismo e dei campi di concentramento: vi si mostrano diffusamente i modi in cui i medici nazisti (e non solo quelli dei campi di concentramento) tradirono il giuramento di Ippocrate. 

Si tratta di I medici nazisti. Storia degli scienziati che divennero i torturatori di Hitler, pubblicato da Rizzoli negli anni Ottanta del secolo scorso e ora riedito (2016)

(risguardo di copertina) "I medici nazisti erano delle belve quando fecero ciò che fecero? O erano degli esseri umani?": è questa la domanda a cui si propone di rispondere questo libro, un'inchiesta sconvolgente che ha aperto una prospettiva inedita sul Terzo Reich e le sue perverse atrocità. Basata su interviste a vittime e carnefici dei lager, la ricerca di Lifton penetra con rara incisività i meccanismi psicologici che hanno reso possibile nei medici nazisti la sostituzione del dovere di guarire con quello di uccidere. Dai ritratti di medici come "l'angelo della morte" Joseph Mengele alla descrizione dei macabri esperimenti compiuti nei campi di sterminio, l'autore ricostruisce con chiarezza il processo che ha portato uomini normali a compiere atti disumani e a legittimare il genocidio degli ebrei come mezzo di risanamento biologico e razziale. Con la sua analisi, Lifton ci ricorda la dura necessità di affiancare alla condanna del male compiuto nei lager l'indagine delle spaventose ragioni che l'hanno reso possibile. Perché solo affrontando la cupa verità che quella nazista fu una crudeltà specificamente umana potremo evitare che essa si ripeta in futuro.

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14 ottobre 2023 6 14 /10 /ottobre /2023 08:44

Questo scrissi il 14 ottobre del 2011, a proposito dei libri e della perdita d'interesse per la lettura da parte dei più. Questa piccola nota è rimasta dimenticata tra le pieghe di Facebook sino ad oggi.
Penso che valga la pena riportarlo qui sul mio blog perchè sento che in qualche modo sia ancora attuale.

Maurizio Crispi

I rogi dei libri (dal web)

Nei secoli bui dell'umanità, i libri in odore di eresia venivano bruciati in pubblici roghi con la stessa ritualità solenne con cui i "peccatori" venivano arsi tra le fiamme. In modo più rozzo e brutale, i nazisti bruciavano tutte le opere che fossero in odore di eresia, ebraismo, semitismo, sionismo.

Nelle dittature del pensiero, lo stalinismo in testa, i libri e i documenti ufficiali venivano proibiti o, in maniera più sottile, epurati da tutto ciò che fosse difforme rispetto all'assetto del momento, in uno sforzo immane di riscrittura della storia degli eventi e delle idee.
E il romanzo di George Orwell, 1984, è di tali procedure uba semplificazione paradigmatica.
Eppure i libri arricchiscono l'umanità. Marco Aurelio, che era un lettore profondo e un filosofo, fu uno dei più grandi imperatori romani, quanto a statura morale, anche se le sue campagne militari non ebbero eguale successo (forse proprio per il fatto che i suoi interessi più vivi era polarizzati altrove).
Oggi si legge sempre meno. 
E chi dovrebbe guidare il paese, forse (salvo qualche rara eccezione), legge meno di tutti.
Vi siete mai chiesti se il Berlusca abbia mai letto un libro?
Forse si sarà limitato alla scorsa di "barlezzettieri", per avere sempre un raccontino pronto da esporre nei momenti meno opportuni.
Ma indubbiamente certi suoi strafalcioni e certi grezzi pregiudizi più volte ripetuti sino alla nausea rivelano poca cultura: da uno che dice "Romolo e Remolo" non c'è da aspettarsi molto.
Eppure i libri arricchiscono, perché consentono un continuo dialogo tra presente e passato e danno sempre - anche quando si tratta di opere narrative - dei vertici di osservazione inediti sulla realtà che ci circonda.
Oggi, in fondo, quanto preconizzato da Farenheit 451 (sia nell'opera visionaria di Ray Bradbury, sia nel film omonimo di Truffaut) rimane quanto mai attuale, anche se in modi più sottili ed insidiosi, con l'assedio dei moderni gadget che vorrebbero rimpiazzare la pagina scritta e il libro.
Se ci chiedessero di salvare dei libri da una catastrofe quali sceglieremmo?
Sarebbe un compito difficile e arduo, come quei sopravvissuti che (nel film "The day after tomorrow") per riscaldarsi dal gelido freddo polare nato da un'improvvisa (ma annunciata) catastrofe climatica e asserragliati all'interno della fornitissima biblioteca centrale di New York City devono utilizzare i libri come combustibile e non sanno, in certi momenti, quali sacrificare per primi.
Ma, in ogni caso, salvare dei libri, anche pochi soltanto, sarebbe tassativo.
Cosa ci rimane se non i libri e l'ancoraggio alla pagina scritta davanti alla catastrofe imminente - non quella fisica e devastante del declino del corpo, non quella eco-sistemica, non quella di una delle apocalissi prossime venture - ma quella devastante ed incalzante dell'inabissarsi della cultura e dei suoi valori, della fine del piacere della lettura a favore di piaceri più effimeri e superficiali e della perdita collettiva della memoria?

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7 ottobre 2023 6 07 /10 /ottobre /2023 06:36
Suzanne Simard, L'albero madre. Alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta (Finding the Mother Tree, nella traduzione di S. Albesano), Mondadori (Le Strade Blu), 2022

L'albero madre. Alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta (Finding the Mother Tree, nella traduzione di S. Albesano) scritto da Suzanne Simard e pubblicato da Mondadori (Le Strade Blu), nel 2022 è un testo di fondamentale importanza per la comprensione dell'ambiente secondo un paradigma totalmente differente da quello dominante che è fondamentalmente ispirato al pensiero di Darwin, fondata sulla competizione tra specie e sulla sopravvivenza del più adatto e del più forte.
Tale paradigma ci ha indotto a ritenere che, nel mondo animale, vigesse "la legge del più forte" e del più adatto alla sopravvivenza e ci ha spinto a costruire un mondo di relazioni tra esseri viventi basato sulla competizione e sull'accaparramento delle risorse.
Questo pensiero ha del pari permeato il modo di rappresentare il mondo vegetale.
Suzanne Simard con le sue intuizioni e con le sue ricerche pluridecennali (per sostenere le quali ha dovuto duramente lottare contro le idee inamovibili dell'establishment accademico) ha rovesciato questo paradigma, mostrando che gli alberi e le piante (non solo simili, ma anche appartenenti a specie diverse) costruiscono una vasta rete sotterranea in cui i collegamenti avvengono attraverso le terminazioni radicali, ma anche con il supporto di un reticolo di ife fungine (le cosiddette micorrize) che connettono le radici di alberi consimili (o anche appartenenti a specie diverse), facilitando il travaso e la circolazione di principi nutritivi (e non solo: anche di informazioni attraverso sostanze chimiche che possono considerarsi l'equivalenti dei mediatori chimici nel nostro cervello).
Nel corso del tempo, il pensiero della Simard è andato ulteriormente avanti sino ad ipotizzare che gli alberi - visti nel loro insieme - si connettono dando vita ad una sorta di mente collettiva grazie alla quale alcuni alberi sono avvisati tempestivamente (attraverso messaggi chimici veicolati lungo la rete di collegamenti) di noxae che agiscono su di un altro albero-individuo connesso alla rete di radici intercomunicanti con l’intermediazione del reticolo costituito dalle ife fungine, sicché gli altri possano prepararsi producendo enzimi e altre sostanze utili a contrastare l'azione della noxa (in questa specifica circostanza si ha una comunicazione attraverso sostanze chimiche che viaggiano nelle radici inter-connesse).
Sì è sviluppata, pertanto, nel pensiero della Simard l'idea feconda che gli alberi si accudiscano tra di loro e che, in particolar modo, quelli di una stessa specie, possano stabilire tra loro dei rapporti privilegiati mentre con quelli di altre si possono stabilire forme di auto-aiuto sulla base delle diverse peculiarità di ciascuna specie, come - ad esempio - nella interazione tra abete di Douglas e betulla.
Ed è nato così anche il concetto di "Albero Madre" (da cui il titolo del libro) che tiene d'occhio i propri "piccoli", facendoli crescere protetti nel suo cono d'ombra e fornendo alle loro radici nutrienti fondamentali per la loro crescita, sino al punto in cui questi potranno trasformarsi in "madricine" (ovvero "piccole madri"), cominciando a propria volta a dare vita attraverso i primi semi a nuovi alberi.
Il pensiero della Simard s'è sviluppato controcorrente, superando la diffidenza e l'ostilità dei cattedratici arroccati sulla loro idea della competizione darwiniana e della necessità di applicare rigorosamente nei rimboschimenti la tecnica della monocultura.
Le battaglie della Simard sono state portate avanti con intraprendenza e perseverazione e proseguendo nella via di sperimentazioni di lunga durata.
Tutto questo la Simard ci racconta in questo straordinario saggio autobiografico che è, assieme, una pietra miliare in una nuova visone della botanica e nella storia delle idee.
Si legge in modo appassionato anche perché l'autrice non esita a mettere a nudo la sua vita personale e la sua forte determinazione nell'andare avanti.
Il volume è corredato da due inserti di splendide foto a coloro e in bianconero.
Un libro assolutamente da leggere, a mio parere.

Ovviamente leggendo questo testo, è facile fare il collegamento con la teoria esposta da Lovelock e al suo costrutto di Gaia, in cui il nostro pianeta va vissto come un unico e articolato organismo vivente.

Le teorie della Simard hanno profondamente influenzato alcune elaborazioni culturali, nella narrativa come anche nella cinematografia: uno degli esempi più ragguardevoli in questo secondo ambito è il film Avatar, con il suo seguito recente Avatar 2. La via dell'acqua.
 

 

(Soglie del testo) In queste pagine, commoventi e profondamente personali, l'autrice condivide il suo mondo, ricordandoci che la scienza non è un regno separato dalla vita ordinaria, ma profondamente connesso con la nostra umanità.
(risguardo di copertina) Docente alla British Columbia ed ecologista di fama mondiale, Suzanne Simard è una pioniera nel campo della comunicazione e dell'intelligenza delle piante. 
Quando nel 1997 «Nature» pubblicò un suo articolo nel quale dimostrava come gli alberi comunicassero tra loro attraverso un'immensa rete di funghi sottoterra, nessuno poteva immaginare che questa scoperta avrebbe riscritto uno dei paradigmi della teoria evoluzionistica, quello secondo cui è la competizione tra le piante a modellare le foreste. Simard suggeriva infatti che fossero la vicinanza e la collaborazione, la diversità e l'inclusione a garantire la vita, l'ecologia e il benessere dei grandi boschi. Un'intuizione che le indagini condotte nei vent'anni successivi hanno ampiamente confermato. Ora, in queste pagine, commoventi e profondamente personali, l'autrice condivide il suo mondo. Svela i segreti che accompagnano la vita degli alberi come creature sociali, mostrando da vicino come questi modellino il loro comportamento ai bisogni della comunità cui appartengono, come si prendono cura gli uni degli altri. Perché la foresta è un ecosistema dove tutto è connesso, dove le specie si adattano, si sviluppano, crescono, completano il loro ciclo vitale mettendo in comune risorse e informazioni, diffondendo energia, saggezza, protezione. Come un'orchestra impegnata nell'esecuzione di una sinfonia, o come una famiglia che cresce attraverso il dialogo, l'aiuto reciproco, la condivisione di saperi e ricordi. 

Suzanne Simard

Ma soprattutto la Simard racconta come questo intreccio apparentemente miracoloso ruoti attorno a entità potenti e meravigliose, gli Alberi Madre, esemplari più anziani che non solo provvedono al nutrimento degli alberi più giovani, ma come dei veri genitori forniscono loro le «ricette migliori» per mantenersi in salute, contribuendo così, generazione dopo generazione, alla salvaguardia dell'ecosistema. 
L'Albero Madre ci accompagna nel complesso ciclo della vita nella foresta, ricordandoci che la scienza non è un regno separato dalla vita ordinaria, ma profondamente connesso con la nostra umanità.


L’autrice. Suzanne Simard insegna ecologia forestale presso l’Università della British Columbia. Autrice di oltre duecento pubblicazioni scientifiche, dal 2015 è a capo del progetto «Albero Madre». I suoi interventi ai TED Talks sono stati seguiti da più di dieci milioni di persone in tutto il mondo.
La sua è stata una vita di scienziata votata alle ricerche sul campo, nelle quali la Simard ha travasato la sua passione per la natura e le foreste, maturata sin dalla più tenera età

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4 ottobre 2023 3 04 /10 /ottobre /2023 06:01

Anche ai migliori lettori può capitare di incorrere in quello che viene definito blocco del lettore. Si tratta di un momento di stallo, in cui nessun libro sembra destare interesse adatto al proprio mondo interiore: un momento in cui inoltre non si riesce mai a trovare il tempo di dedicarsi alla letteratura.

Come aggirare il blocco del lettore

Una rappresentazione del blocco dello scrittore del pittore russo Leonid Pasternak (1862 – 1945)

L'incubo di molti scrittori è il cosiddetto "writer's block", ovverossia il "blocco della scrittore" (o sindrome della pagina bianca), quando la penna di un autore unon riesce più a tracciare solchi sulla carta e a produrre pagine di senso compiuto. 
Molti scrittori hanno partorito dei romanzi il cui tema centrale è appunto il paventato "blocco dello scrittore", storie parzialmente autobiografiche in cui lo stesso scrittore analizza e descrive qualche crisi di questo tipo che ha sperimentato in passato.

Fa da contraltare al "blocco dello scrittore", il "blocco del lettore", quando un lettore - più o meno prolifico che sia - viene preso da una sorta di inedia letteraria e nessun libro risulta più appetibile al suo palato, anche se gli stimoli alla lettura sono molteplici e nella sua "dispensa" letteraria si sono già accumulati molti volumi che fanno parte della lista delle prossime letture, mentre all'orizzonte si addensano altri volumi che possano entrare nelle capaci riserve del lettore accanito (la "legna da ardere" accumulata in vista di un lungo inverno).

Ebbene, in questi momenti, nulla più riesce a scuotere il lettore vorace dal suo torpore; se ne sta lì, provando e riprovando, magari sentendosi anche in colpa perché non legge e non avanti con il suo programma di lettore o perché non da libero corso all'attività che predilige.

E in questo non ha riposo, non ha pace, si tormenta.

Forse ciò accade perché ci siamo sottoposti ad una pressione eccessiva, riempiendo ogni spazietto del nostro tempo libero con le letture, inventandoci addirittura altri intervalli di tempo da dedicare alla lettura (magari non dormendo la notte).

Ci siamo saturati.

Non si deve insistere, in questi casi.

Il blocco del lettore

Insistere porta all'effetto contrario, come nel caso dell'insonne che vuole dormire, vuole riaddormentarsi ad ogni caso; e, imprigionato com'è nell'ansia da prestazione (che in questo caso si traduce nel "produrre sonno"), non si rilassa a sufficienza perché il Sonno possa sorprenderlo.

Nei confronti della lettura non funziona il "volli, e volli sempre, e fortissimamente volli" di alfieriana memoria, poiché la lettura (a meno che non sia finalizzata all'apprendimento e allo studio) è un'attività che si svolge (o dovrebbe svolgersi) fondamentalmente all'insegna del piacere.

E allora?

Bisogna sapere attendere! Dar tempo alla nostra mente di far sedimentare le scorie letterarie o di metabolizzarle; lasciare che il cervello sovraeccitato e sovraccarico di parole, di frasi memorabili, di trame e di personaggi, si raffreddi e si riposi; facendo sì che, attraverso il riposo si rigeneri (e facendo sì che il sovraccarico di informazioni e le tante, troppe vite che la lettura costante ci trasmette, decantino).

Occorre riesumare quella pratica agricola del maggese, oggi semi-dimenticata per via dello sfruttamento intensivo dei terreni e dell'utilizzo dei fertilizzanti chimici, che era quella di tenere a rotazione un appezzamento di terreno a riposo, "a maggese" come si diceva, per un anno o per periodi di tempo più lunghi: un riposo attivo, in verità, poiché senza la semina di specifiche sementi "produttive" e con la comparsa di specie non domestiche, il terreno si rigenerava e, dopo un intervallo dato,  era fosse nuovamente pronte ad accogliere la semina dell'uomo e a fare sviluppare piante dalla crescita sana e vigorosa.

Snoopy Writer

E dunque: se da lettori (da lettori "golosi" e "ingordi" ci sarebbe da aggiungere) ci dovessimo confrontare con il temuto "blocco del lettore", mettiamoci tranquillamente "a maggese" per il tempo necessario oppure lasciamo sorprenderci da incontri inattesi e dalla scoperta di ciò che non è non è nella nostra lista mentale di letture alla quale tenderemmo ad attenerci scrupolosamente: in questi casi, l'incontro con una lettura che, in altri momenti avremmo snobbato è come l'erba selvatica (a cui ordinariamente si attribuisce poco valore) che cresce e si dispiega in un terreno tenuto a maggese e fungerà sicuramente da fertilizzante naturale e da attivatore.

In fondo è lo stesso tipo di pausa che si richiede quando si termina di leggere un libro che ci ha preso con un'intensità straordinaria e mai vista: in questi casi non ci riesce - a volte - di prendere in mano, subito, un altro libro, perché la nostra mente è ancora sovraccarica di quelle vicende e di quei personaggi.

Il mio amico Geronimo su Facebook ha recentemente sollevato questo tipo di problema nel gruppo "Parliamo di libri, parliamo di noi" e con il suo quesito mi ha dato lo spunto di scrivere queste riflessioni.

 

Snoopy e la lettura

Così scrive su Facebook nel gruppo "Parliamo di libri, parliamo di noi" il mio amico virtuale Geronimo Wolf:

(29 settembre 2023) Da circa due settimane ho una sorta di blocco del lettore.
E ciò per noi lettori è un dramma.
Ho iniziato almeno 5 libri ma dopo qualche pagina li ho mollati, neanche la Patagonia di Chatwin mi ha svegliato dal torpore.
Sono andato in libreria con l'intento di acquistare un libro con caratteri grandi, di semplice lettura e poche pagine, ma son uscito con 'Figlio di Dio' di McCarthy.
Tutto l'opposto [di ciò di cui avrei avuto bisogno].
Anche in questi momenti mi rifugio nei drammi psicologici, sarà un vizio.
A casa ho tirato fuori dalla libreria parte dei libri ancora da leggere che giacciono moribondi da tempo,
Ne ho letto gli incipit senza capire granché, mentre la frustrazione prendeva il sopravvento su questo povero me, lettore sul viale del tramonto.
Tra un ahimè e l'altro, l'occhio mi è caduto su un libro avente le caratteristiche sopra elencate, regalatomi da un'amica per il compleanno di due anni fa.
Un libro che pensavo non avrei mai letto, che invece mi sta regalando momenti piacevoli e che non necessita di molta concentrazione, se non per i nomi giapponesi dei vari personaggi protagonisti.
Ma non si può avere tutto dalla vita.
Vi è mai successo di attraversare un periodo di apatia verso la lettura?
Secondo voi va assecondato o si deve continuare a leggere, anche solo la lista della spesa, i programmi tv e le ricette di nonna Pina?
Grazie, buona serata a tutti.

PS: anche scrivere questo post mi sta costando fatica, quindi vi prego di regalarmi qualche soddisfazione coi vostri commenti.

 

Un campo a maggese

Stare a maggese
Il termine “maggese” – derivante dal mese di maggio – indica una pratica agricola che viene svolta fin dall’antichità in questo mese.

Consiste nel fare una serie di lavorazioni su un terreno povero, tenuto a riposo, con la finalità di prepararlo ad una successiva coltivazione e soprattutto renderlo pronto per la “rotazione delle colture”.

È un terreno ben arato, lavorato con l’erpice – un attrezzo costituito da lame, denti o dischi su telaio – ma lasciato non seminato, a “riposare” per una anno intero o più, senza appunto renderlo produttivo.
Passando dalla metafora rurale alla Psicologia, lo stare o il mettersi a maggese è una capacità fondamentale che è utile acquisire per il governo efficace di noi stessi e della nostra emotività, in occasione di specifici eventi e/o periodi della nostra vita.
La nostra mente, ma in questo caso soprattutto il nostro cuore inteso in senso affettivo/sentimentale, sono infatti paragonabili ad un campo agricolo: non possono subire lo “sfruttamento intensivo” delle risorse ed essere sempre in tensione “produttiva”.

Il rischio è che il “terreno” si inaridisca al punto tale da diventare di fatto improduttivo.

È necessario, oltre che opportuno, equilibrare saggiamente il momento della “coltivazione” con quello del “riposo attivo”, ossia quello di un tempo/spazio personale in cui ci si rigenera, ci si prende cura di sé, ci si ascolta in profondità e si allentano o annullano del tutto gli intensi ritmi della produzione vissuti nelle attività quotidiane e nelle relazioni con gli altri.

Silvio Morganti, nel suo originale libro Le voci del silenzio (Editori Riuniti, Roma, 1994), descrive lo stare a maggese nel modo seguente: “Molte volte ci può capitare di registrare consciamente una pacata riluttanza ad applicarci a qualcosa che avremmo il dovere di fare.

Ci rimproveriamo con severità, ma non riusciamo a costringere la nostra capacità esecutiva al dovere.

Sentiamo che abbiamo bisogno di restare un po’ in ozio.

Il rimanere a maggese è caratterizzato anche da un altro importante aspetto: non lo si può raggiungere nell’isolamento totale e nella deprivazione.

Bisogna acquisire la capacità di essere soli in presenza di qualcuno che ci stia discretamente vicino.

Questo garantisce che il processo psichico rimanga sotto controllo e che così non si trasformi in processo morboso, introspettivo e penosamente tetro”.
Il contadino, anche se non semina, vigila sempre sullo stato del suo campo.
Lo stare a maggese è “sospendere” per un periodo l’attività della nostra mente ma anche del nostro cuore rispetto ad un “oggetto specifico” – una relazione, un amore, il lavoro – per il tempo necessario che serve loro a rigenerarsi.
Possiamo assimilare lo stato di maggese a quello che i Romani chiamavano “Otium” – il ritiro nello spazio privato – in contrapposizione al “Negotium” che indicava invece l’insieme delle attività di scambio e di comunicazione svolte nel Foro o nella pubblica piazza.
L’“Otium” non va confuso con l’“Otiositas” che risponde all’accezione negativa dell’oziare secondo quanto S. Benedetto ha menzionato nella sua Regola.
“C’è un tempo per abbracciare ed un tempo per astenersi dagli abbracci”, troviamo scritto nella Bibbia.
Ecco il motivo fondamentale per cui la strategia de “Il chiodo scaccia chiodo” in amore è molto rischiosa.

Dopo aver vissuto una relazione od una storia importante, soprattutto quando è “finita male”, bisogna lasciare al “terreno dei sentimenti” un tempo per riposarsi e riprendersi, altrimenti lo “sfruttamento intensivo” può anche renderlo “sterile”, vale a dire incapace di generare rapporti soddisfacenti e frutti amorosi saporiti in un tempo successivo.
È necessario una buona dose di coraggio e di equilibrio interiore per astenersi ma il saper aspettare è ripagato dal fatto che il futuro incontro sarà ancora più emozionante e significativo.

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15 settembre 2023 5 15 /09 /settembre /2023 07:20
1793

1793 di Niklas Natt Och Dag, (nella traduzione di Gabriella Diverio e Alessandra Scali), pubblicato da Einaudi (nelle collane Stile Libero Big/ Super ET, 2019 e SuperET, 2020) è Il primo volume di una trilogia storica ambientata nella Stoccolma di fine Settecento, con risvolti cupi e da noir:  stato per me una piacevole sorpresa, per quanto di difficile digestione.
Ho letto molto delle condizioni di vita durissime della maggior parte della gente non abbiente (quindi la maggior parte della popolazione residente) nella Londra dell'Ottocento, niente ancora sulla Stoccolma di quel periodo o anche prima. E quindi quest'opera ha suscitato un mio forte interesse, perché mi ha condotto nel cuore di un pianeta ancora a me del sconosciuto.
Ciò che emerge è una separazione abissale tra i "poveri", i nullatenenti, i disperati e l'aristocrazia. Due pianeti del tutto separati. E' inimmaginabile, al giorno d'oggi, pensare che si potesse vivere in quelle condizioni: in più in condizioni in cui gli "ultimi" (la maggior parte) si trovavano a dipendere dalla sopraffazione e dall'abuso di guardiani e di amministratori della giustizia corrotti e prevenuti.
Questa è la ricostruzione che emerge dal primo dei tre volumi della trilogia storica scandinava.
Tutto ruota attorno al ritrovamento di un corpo orrendamente mutilato nelle acque limacciose di Stoccolma: e si trovano ad indagare due particolari personaggi, una coppia male assortita, eppure efficace, pur tormentata dalle crisi di mal sottile e dagli accessi melanconici di uno dei due, (Cecil Winge) e dalle intemperanze alcooliche dell'altro (Mickell Cardell).
Eppure, alla fine, i due investigatori (pur così squinternati, sia pure per motivi diversi) districheranno la matassa, giungendo ad una soluzione. Il tutto con ampi excursus sulla vita di altri personaggi che contribuiscono ad arricchire il quadro. Ma il carattere principale (ed anche il protagonista assoluto) è la Stoccolma di quell'anno, turbata dai veti rivoluzionari che vengono dalla Francia, con un Re appena assassinato e con un reggente assetato di potere, mentre il popolo langue e affoga nella miseria e in fiumi d'alcool.
Molti dei luoghi descritti e dei particolari storici non mi sono risultati usuali e, quindi, la lettura è stata supportata da frequenti incursioni su Wikipedia per saperne di più sui luoghi descritti e sui personaggi storici menzionati.
Ci vuole indubbiamente molto stomaco per leggere alcuni passaggi, ma si va avanti, perché la voglia di conoscere di più e il desiderio di seguire il filo rosso della narrazione hanno la meglio.
#lemieletture #narrativa #narrativascandinava #thrillerstorici #romanzistorici

 

(quarta di copertina) Stoccolma, Anno Domini 1793. In una città oltraggiata dalla povertà e dal privilegio, la notizia di un corpo ripescato in un lago scuote nobili e prostitute, preti e tagliagole. Toccherà a un ex soldato con un braccio di faggio e a un giudice malato cercare la verità fra i bassifondi e i palazzi del potere. Un caso internazionale che segna la nascita di un folgorante talento letterario.


(Risguardo di copertina) È l’autunno del 1793. Gustavo III è morto e la Svezia geme sotto il pugno di ferro di Gustaf Adolf Reuterholm, il lord reggente. Il Paese è affamato, sfinito dalle troppe guerre del defunto re. La paranoia prolifera come un morbo e per i vicoli di Stoccolma si sussurra di cospirazioni e complotti. Cosí la scoperta di un cadavere orrendamente mutilato sull’isola di Södermalm diventa una questione della massima urgenza.
L’incarico di risolvere il mistero viene affidato a Cecil Winge, un geniale procuratore ormai consumato dalla tisi. Con lui, Mickel Cardell, un reduce della guerra contro la Russia che, nonostante abbia lasciato il braccio sinistro sul campo di battaglia, possiede ancora una forza quasi sovrumana.

 

Niklas Natt Och Dag

Hanno detto
«Coinvolgente e scioccante» - The Times
«Un romanzo livido, febbrile, di una potenza palpabile. Un esordio eccezionale. Un autore da seguire» - Le Parisien
«Un thriller trascinante» - The Observer
«Un viaggio vivido e avvincente nella Stoccolma del xviii secolo, nelle sue ingiustizie e nei suoi luoghi oscuri» - The Guardian

L'autore. Niklas Natt Och Dag è il discendente della più antica famiglia aristocratica svedese, da tempo decaduta. 1793, il suo primo romanzo, ha vinto il premio di libro dell'anno in Svezia ed è stato pubblicato in Italia nel 2019 da Einaudi.
Hanno fatto seguito 1794 e 1795, quest'ultimo uscito in Italia per Einaudi nel 2022

#lemieletture #narrativa #narrativascandinava #thrillerstorici #romanzistorici

Finito di leggere ad Agosto del 2022

 

 

(Margherita Guizzo del gruppo FB "Parliamo di libri, parliamo di noi") All'inizio del 2020, appena terminato di leggere questo libro, scrivevo il seguente commento. Praticamente siamo d'accordo su tutto. Poi ho acquistato il secondo della trilogia, ma non l'ho ancora affrontato.
"Ecco un libro da leggere quando hai il naso tappato dal raffreddore e non ti arrivano gli effluvi che dalle pagine di carta e perfino dallo schermo asettico del kindle si alzano a sconvolgere le tue mucose nasali.
È un libro di odori, odori cattivi, che nella Stoccolma del 1793, appena morto re Gustavo III per un attentato, ristagnano dappertutto e non danno pace.
È l'afrore dei corpi, il fango putrido delle strade, il vomito degli ubriachi, le fogne che confluiscono nei canali, le montagne di merda, i cadaveri accatastati in attesa di sepoltura.
"" Producono sapone, sia quello con cui i poveracci grattano via lo sporco quando si fanno il bagno a Natale, sia quello che usano le nobildonne per la toilette mattutina. La lavorazione è la stessa. La differenza sta nell'esclusività del profumo. Ma prima del profumo c'è la puzza, quella emanata dai cadaveri degli animali. Li si fa sciogliere per ottenerne il grasso, che poi viene mescolato con altri ingredienti... ""
Comunque, superato l'impatto olfattivo, il libro è bello e meritevole di lettura.
I critici lo chiamano giallo storico.
Dal punto di vista della Storia - ho verificato - tutto a posto. Come giallo, segue la falsariga dei capostipiti di genere con la classica coppia di investigatori: il genio e l'aiutante. Qui l'emulo di Holmes è Cecil Winge, giudice consumato dalla tisi, che ti chiedi come abbia fatto a non morire lungo le 496 pagine di questo romanzo affascinante e complesso.
Mickel Cardell (Watson, per capirci) è un reduce di guerra dal braccio di legno, guardia controvoglia tra una sbornia e una scazzottata, quando capita. Capita spesso, ma in fondo è un bravo ragazzo.
Dalla capitale svedese così descritta, sembra lontana la Rivoluzione Francese degli stessi anni; invece c'entra e la troverete fra le pagine:
"" Le lamentele che corrono di bocca in bocca sono sempre le stesse: l'economia che va a rotoli, l'incompetenza dei governanti, la necessità urgente di cambiare le cose. ""
A proposito di miseria e nobiltà, il giovane autore di questa opera prima pare sia l'ultimo rampollo della più antica casata nobiliare svedese, il cui lignaggio evidentemente non basta a sopravvivere oggidì. Fa il giornalista ed ora lo scrittore di successo. (Pensate un po' se l'idea venisse a qualcuno di casa Savoia, non oso nemmeno pensarci).
(Comunque il rimando in copertina a Umberto Eco è esagerato, checché ne dica il Washington Post)"

Un bellissimo commento!

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14 settembre 2023 4 14 /09 /settembre /2023 06:39
Luca di Fulvio, La ragazza che toccava il cielo, Rizzoli

Dopo il successo di “La gang dei sogni” presso i lettori tedeschi (da me recensito in un mio precedente blog), i successivi romanzi di Luca Di Fulvio sono stati tradotti e pubblicati in tedesco, prima ancora che in edizione italiana, un successo travolgente da milioni di copie vendute. 
Nulla in confronto al successo di pubblico in Italia, dove é rimasto come scrittore onorevolmente apprezzato, anche se di nicchia (senza cioè mai raggiungere punte da best seller).
Ho letto La ragazza che toccava il cielo (uscito nel nel 2013 e pubblicato da Rizzoli)  con immenso piacere: siamo in una Venezia di inizio Seicento, in cui si ritrovano diversi personaggi alcuni che giungono da lontano, e altri veneziani.
Venezia, nell'arco temporale in cui si svolge la vicenda, comincia ad essere percorsa da intolleranze religiose (che portano gli Ebrei ad essere confinati nel ghetto e ad essere tacciati di stregoneria da fanatici religiosi), mentre imperversa il Mal Francioso (la sifilide) che in quegli anni aveva ancora un decorso tumultuoso e un andamento epidemico.
In questo scenario si sviluppa un amore appassionato tra Mercurio, un ladruncolo con abilità trasformiste, giunto da Roma alla ricerca di fortuna, e di Giuditta, figlia di un ebreo sedicente medico (anche loro provenienti da lontano dopo molte traversie).

Molti dei personaggi sono impegnati a trasformarsi e ad elevarsi e ciò a scapito di gelosie, odi vendicativi, meschine ritorsioni e rese dei conti. 
Le costruzioni narrative sono rutilanti e si susseguono, tenendo avvinto il lettore, con una precisa ricostruzione degli ambienti, delle location sin quasi a condurlo a percepire con verosimiglianza colori, suoni e odori. Venezia appare fatiscente, invasa dalle puzze dell'acqua stagnante dove vengono riversati liquami, escrementi e residui organici di ogni genere, mentre l'igiene delle persone e degli ambienti è precaria e approssimativa, e molti - i più - vivono in condizioni di grande miseria: eppure, v'è tutto il fascino d'una città che si erge sull'acqua con gli sfarzi e le bellezze sublimi che, come fiori di indicibile bellezza, nascono da una base di mortifera decomposizione (per questi aspetti, il romanzo di Luca di Fulvio ricorda molto la Stoccolma di fine Settecento tratteggiata in 1793 dello svedese Niklas Natt Och Dag)
 

Non anticipo altro della trama, per non fare da spoiler a coloro che vorranno leggere questo romanzo, ma dirò soltanto che vi si parla, in definitiva, del perseguimento di un sogno e di un riscatto possibile, inseguendo il cielo e le stelle. e di un avventure verso un agognato nuovo mondo.

 

Grazie, Luca di Fulvio!


(Risguardo di copertina) 1515. Mercurio è un artista della truffa. Scaltro, veloce, abile nei travestimenti, ha fatto delle fogne di Roma la propria casa, imparando dalla strada che l'unico modo per sopravvivere è non avere altri cui pensare tranne se stesso. Convinto di avere ucciso un mercante ebreo che ha appena derubato, è costretto a fuggire: lontano potrà rimettere insieme i cocci della sua vita. Certi vasi, però, nascono rotti, e non basta portarli altrove per farli sentire meno a pezzi. Eccolo allora a Venezia, nel suo ingannevole intreccio di canali, dove conosce Giuditta, arrivata in laguna con l'illusione di trovare un luogo libero dalle persecuzioni contro gli ebrei. Ma l'amore che nasce tra i due è destinato a incontrare insidie e ostacoli: la gelosia della giovane Benedetta, innanzitutto, e la nascita, proprio a Venezia, di quello che sarà il primo ghetto d'Europa. Nel labirinto di calli malfamate perdersi è la norma, e a Mercurio non resterà che smarrire se stesso per ritrovare Giuditta, il pezzo mancante nella mappa strappata del suo cuore.

 

Luca Di Fulvio

L’autore. Luca Di Fulvio, nato nel 1957 a Roma (morto nel 2023), è stato un autore, attore e drammaturgo italiano. 
Ha vissuto a Roma dove si è diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, entrando a far parte della comunità teatrale americana “Living Theatre”.
Successivamente ha lavorato con Andrej Waida ne “L’affare Danton”. Ha fondato con Pino Quartullo la compagnia teatrale “La Festa Mobile”. Oltre a numerosi spettacoli di successo, i due hanno realizzato il cortometraggio “Exit” vincitore della Concha de Oro al Festival di San Sebastian e nominato agli Oscar.
Ha vinto il Premio Under 35 e segnalazione speciale dell’Istituto del Dramma Italiano con l’atto unico “Solo per amore” scritto con Carla Vangelista.
Nel 1996 ha esordito nella scrittura con il romanzo breve Zelter, pubblicato da Zelig-Baldini&Castoldi cui fa seguito nel 2000 L’impagliatore, romanzo noir pubblicato da Mursia che in breve ottenne grandi consensi. Acquistato dalla casa di produzione Cattleya, viene portato al cinema da Eros Puglielli col titolo “Occhi di cristallo” e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2004 L’impagliatore viene ristampato da Einaudi. Segue Dover Beach, pubblicato da Mursia e acquistato da Vittorio Cecchi Gori.
Con lo pseudonimo di Duke J. Blanco ha scritto il romanzo per ragazzi I misteri dell’Altro Mare, vincitore del premio Selezione Bancarellino.
Nel 2006 è approdato a Mondadori con il romanzo La scala di Dioniso [splendido romanzo], acquistato per il cinema da Gabriele Salvatores, cui fanno seguito nel 2008 La gang dei sogni e Il Grande Scomunicato del 2011.
I suoi libri sono tradotti da importanti case editrici come Gallimard e Albin Michel (Francia), Luebbe (Germania), Azbooka (Russia), Hayakawa (Giappone), Bitter Lemon Press (Inghilterra, Canada e USA) e poi in Spagna, Serbia, Olanda, Croazia, Slovenia, Grecia.
Nel 2015, viene pubblicato il romanzo Il bambino che trovò il sole di notte (pubblicato in contemporanea in lingua tedesca). 
Nel 2019 esce per Rizzoli La figlia della libertà (addirittura pubblicato l'anno precedente in lingua tedesca) e nel 2020 La ballata della città eterna, ultimo suo romanzo.
Luca Di Fulvio si è spento a Roma il 31 maggio 2023.

Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Luca di Fulvio attraverso un fecondo e stimolante scambio epistolare, sia prima che dopo la pubblicazione de "La scala di Dioniso", di cui Luca mi ha fatto omaggio di una copia autografa.

Luca Di Fulvio

Attraverso Facebook, ho scoperto con dispiacere che se è andato, il 31 maggio 2023, LUCA DI FULVIO, uno scrittore italiano eclettico, versatile e geniale, forse poco conosciuto dalle nostre parti ma tradottissimo in altre lingue e soprattutto in Tedesco (e in Germania specie con i suoi ultimi romanzi di carattere storico ha goduto di tantissima popolarità).
Mi pregio di averlo seguito sin dai primi suoi romanzi e di essere stato a lungo negli anni passati in contatto epistolare.
Pur essendo di natura schiva è riservata, era uno scrittore che non si tirava indietro e che volentieri e con affabilità rispondeva generosamente ai lettori che gli scrivevano.
Ho letto moltissimi dei suoi romanzi, soprattutto quelli della prima maniera, prima della svolta verso il romanzo ad ambientazione storica.
Merita indubbiamente di essere ricordato.

Arrivederci, Luca Di Fulvio!

 

Di seguito i titoli delle sue opere narrative

  • 1996 Zelter
  • 2000 L'impagliatore
  • 2002 Dover Beach
  • 2006 La scala di Dioniso
  • 2008 La gang dei sogni
  • 2011 Il grande scomunicato
  • 2013 La ragazza che toccava il cielo
  • 2015 Il bambino che trovò il sole di notte
  • 2019 La figlia della libertà
  • 2021 La ballata della città eterna

Di questi segnalo particolarmente La scala di Dioniso e La Gang dei sogni che credo si possano considerare i romanzi della sua maturità di scrittore, in transizione da opere di genere e prima della svolta "storica" che lo ha reso così popolare all'estero.

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30 agosto 2023 3 30 /08 /agosto /2023 06:11
Il detective Kindaichi, Sellerio editore, 2019

Il detective Kindaichi (nella traduzione di Francesco Vitucci), pubblicato da Sellerio (collana La Memoria), nel 2019, , é' una crime story uscita dalla penna di Yokomizo Seishi e molto ben costruita poichè ripropone in modo assolutamente originale il classico mistero della letteratura poliziesca dell’omicidio perpetrato in una camera chiusa dall'interno, così come tiene a precisare il narratore, proprio a partire da alcuni classici, in testa a tutti quello di Gaston Leroux (Il Mistero della Camera Gialla) e a seguire alcuni dei romanzi di John Dickson Carr, anche lui maestro degli enigmi della camera chiusa.

Per la risoluzione del mistero proposto in questo breve romanzo entra in scena una singolare figura di investigatore privato, Kosuke Kindaichi che si presenta sulla scena del doppio delitto e, dopo aver raccolto degli elementi sparsi, a tutti incomprensibili (semplici "anomalie" ritenute dagli investigatori fficiali elementi senza importanza) li ricompone in un racconto coerente e assolutamente verosimile, fornendo alle persone coinvolte e ai lettori la spiegazione per comprendere un "delitto perfetto".  
Le rivelazioni finali come in tutte le crime story - si pensi alle narrazioni di Agatha Christie, ad esempio - avvengono nel corso di una riunione in cui è Kundaichi stesso a mettere assieme i diversi pezzi del puzzle e a fornire anche per ciascuna sua affermazione le necessarie dimostrazioni sulla veridicità di ciò che afferma.
A questo primo romanzo con l'investigatore Kindaichi, nella veste di protagonista/risolutore del caso, ne hanno fatto seguito altri di cui due sono stati pure editati da Sellerio, rispettivamente "La Locanda del Gatto Nero" e "Fragranze di morte".
L'ho letto con autentico piacere.


"Yokomizo Seishi era soprannominato il «John Dickson Carr giapponese». Come il grande giallista di lingua inglese dell’«epoca d’oro», le trame di Yokomizo fanno perno su un enigma «impossibile»; e il mistero è avvolto in dettagli impressionanti, talvolta apparentemente soprannaturali, che sembrano mandare un messaggio nascosto. In un quadro di questo genere, il marchio del detective non può essere la normalità, ma l’eccentricità e il ragionamento acuto".


(Risguardo di copertina) Un doppio omicidio. Un enigma della camera chiusa. Un bizzarro detective privato, giovanissimo, trasandato nel vestire quasi oltre la decenza, presuntuoso a rasentare lo sprezzo. Uno dei romanzi di fondazione del mystery nipponico e l'esordio delle indagini del detective Kindaichi Kōsuke. Un classico di livello internazionale.
Un enigma della camera chiusa. Doppio omicidio nella dépendance della grande magione degli Ichiyanagi, ricchi e influenti possidenti. Il primogenito Kenzō, assieme alla giovane moglie, è ritrovato sgozzato, immersi i due corpi in un lago di sangue, nello stesso giorno delle nozze. L'ambiente dove è avvenuto il delitto è ermeticamente chiuso dall'interno, e l'arma del delitto, una spada tradizionale giapponese, giace a terra fuori dalla porta. Un brivido di terrore in più, che raggela gli abitanti della dimora, viene dal suono inspiegabile, nelle tardissime ore della notte, di un antico strumento a corde, il koto (il narratore della vicenda si riferisce ad essa come al «caso del koto stregato»). E nei dintorni si aggira uno strano personaggio, il viso sfregiato e solo tre dita nella mano, le cui impronte si trovano dappertutto. Yokomizo Seishi, massimo esponente della crime story nipponica, attivissimo nei decenni di metà secolo scorso nell'epoca d'oro del giallo deduttivo, aveva una passione per il sottogenere della camera chiusa, tanto da essere soprannominato il «John Dickson Carr giapponese». In comune con il suo omologo anglosassone, aveva la capacità di tinteggiare le atmosfere di un terrore che sfiorava il soprannaturale, oltre al

Seichi Yokomizo

talento di ideare «miracoli criminali». Gli ingredienti essenziali di questo sottogenere sono tre. La tensione del mistero inspiegabile che si scioglie con la scoperta del geniale marchingegno dell'assassino. L'ambientazione suggestiva: come è appunto quella inusuale, tenebrosa, alquanto esotica del mondo dei grandi ex feudatari nipponici. E infine il fascino del bizzarro investigatore: e quello di Yokomizo Seishi, il detective privato Kindaichi Kōsuke, è giovanissimo, un ventenne, di piccola statura, trasandato nel vestire quasi oltre la decenza, presuntuoso a rasentare lo sprezzo.

 

L’Autore. Dopo aver lavorato nella farmacia di famiglia e in seguito come giornalista letterario, negli anni Trenta del Novecento iniziò a pubblicare i primi romanzi. Con le sue trame di misteri ottenne un grande seguito di lettori divenendo in Giappone modello della crime story. Tra i suoi libri: oltre a Il detective Kindaichi (Sellerio, 2019), La Locanda del Gatto Nero e Fragranze di morte.
 

 

#crimefiction #polizieschi #letturedimauriziocrispi

(Letto nel corso del 2022)

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25 agosto 2023 5 25 /08 /agosto /2023 08:32
Elizabeth Fuller, Quando vedi un em§ in cielo, Corbaccio, 2001

Quando vedi un emù in cielo (When You See the Emu in the Sky: My Journey of Self-Discovery in the Outback, nella traduzione di Maddalena Togliani), scritto da Elizabeth Fuller e pubblicato in traduzione da Corbaccio, 2001, è un libro molto bello, pieno di spunti di riflessione, ma anche fonte di ispirazione.

Sono davvero contento di aver letto questo libro, anche se a distanza di oltre vent'anni dalla data del suo acquisto. Lo collocai subito tra i libri di viaggio: allora mi parve appropriato perché vi si parlava di un viaggio in Australia e in particolare nell'Outback, cioè una di quelle zone semidesertiche dove continuano a vivere gli aborigeni. E lo misi proprio accanto ai libri di Bruce Chatwin e al suo insuperabile "Le vie dei Canti", la cui lettura tanto mi aveva colpito negli anni Novanta.

Adesso, dopo averlo letto, assaporandolo sino all'ultima pagina, non credo che l'originale collocazione potrebbe essere quella giusta: forse, oggi, opterei per una disposizione che sia vicino ai memoir oppure accanto a testi che parlano di formazione spirituale e di religiosità "selvaggia".
E' il racconto di un viaggio di formazione: una donna (l'autrice) segnata da alcuni lutti, si spinge - assume al figlio Chris - nel cuore dell’Outback australiano, alla ricerca di qualcosa per poi scoprire che deve innanzitutto trovare se stessa. O meglio, a questo viaggio, "viene" spinta da premonizioni e presagi, da segni e manifestazioni oniriche (ed anche da inspiegabili "presenze" e reperti), nella casa in cui si trova temporaneamente ad abitare assieme al figlio, una casa che - come apprenderà - è stata costruita su di un sito che ha delle proprietà sacrali per il gruppo di aborigeni che ha vissuto in quella zona, prima che fosse occupata dai bianchi.
Apprenderà ciò da Max Eulo, un aborigeno che viene a conoscere e che porta proprio in questa casa perché le dia una mano ad interpretare questi "segni" e a capire (secondo il consiglio di Max) se siani legati ad una presenza "buona" oppure no.
E, quindi, incoraggiata dallo stesso Max (e avendo Max come guida) intraprenderà un viaggio nell'Outback. Qui, malgrado le sue remore (dettate dalla razionalità) imparerà a "guardare" e a "guardarsi dentro": compirà questo percorso aiutata dalle meravigliose persone che incontra a Enngonia (nel New South Wales), Max Eulo, i suoi parenti, i suoi amici, le loro storie, le loro visioni, la loro semplicità che è nello stesso tempo profondità di pensiero sul mondo e filosofia di vita.
L’outback australiano, le vie dei canti, il cuore profondo degli aborigeni tutto in questo memoir è mescolato assieme, ben amalgamato senza retorica.

Sono veramente contento di averlo letto, anche perché credo che l'Australia sia uno di quei posti in cui in questa vita non riuscirò mai ad andare.

 

Elizabeth Fuller

(Sinossi) Il dolore per la morte del primo marito e la malattia del suo più caro amico, colpito dall'Aids, buttano l'autrice nella più nera disperazione e la spingono a fuggire in Australia, in compagnia del figlio dodicenne.
L'Australia rappresenta l'avventura ma alcuni eventi, misteriosi e inspiegabili, trasformano il viaggio in qualcosa a cui non era preparata. Diventa un'avventura dell'anima dove i cartelli stradali sono grandi cacatua bianchi, spiriti di sciamani morti appaiono nella notte e un aborigeno di nome Max Eulo diventa un amico e una guida attraverso una cultura vecchia di millenni.


L’autrice. Elizabeth Fuller, saggista, è autrice anche di testi teatrali. Vive attualmente a Weston, nel Connecticut, con il secondo marito e il figlio.
 

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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