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31 maggio 2018 4 31 /05 /maggio /2018 08:36
Francesco D'Adamo, Storia di Iqbal (edizione speciale 20 anni dopo), Einaudi ragazzi, 2016

La storia del piccolo pakistano Iqbal Masih, "bambino senza paura", costretto al lavoro forzato in una fabbrica di tappeti, e poi impegnato in una lotta contro i suoi sfruttatori e di tanti altri bimbi come lui, sino a parlare pubblicamente davanti ad un consesso delle Nazioni Unite, ha fatto il giro del mondo. Iqbal è diventato a tutti gli effetti l'emblema e il simbolo della campagna contro il lavoro minorile e contro quella che appare come una forma moderna di schiavitù, tanto più odiosa perchè riguarda i bambini costretti a condizioni di lavoro disumane.

L'impegno di Iqbal, prima sfruttato e poi "lottatore", venne malvisto dai potenti della sua terra (e dalla "mafia" dei tappeti) che nel 2004, quando lui aveva l'età di 14 anni, ne commissionarono l'uccisione, malgrado la notorietà che il piccolo pakistano aveva raggiunto a livello mondiale con il suo "No!" forte allo sfruttamento del lavoro minorile.

Francesco D'Adamo ha saputo farsi cantore della storia di Iqbal, trasformandola in un opera narrativa per lettori di ogni età a partire da10-12 anni, dall'indubbio valore umano e didattico, anche se le emozioni che scaturiscono dallo story telling non sono certamente subordinate alle finalità didascaliche ed educative, con il titolo di "Storia di Iqbal"
Il volume di D'Adamo, che ha visto la luce la prima volta nel 2001 per i tipi di EL, è stato rieditato venti anni dopo la barbara uccisione di Iqbal (a tutti gli effetti un'edizioni speciale, per i tipi di Einaudi Ragazzi, nel 2016, con una prefazione di Gad Lerner).

La storia di Iqbal è stata successivamente trasformata in un film TV drammatico nel 1998 e, più recentemente, in un film d'animazione, molto bello. Iqbal. Bambini senza paura  (Francia, 2015).

(dal risguardo di copertina) La storia vera, riproposta a vent'anni dalla morte, di Iqbal Masih, il ragazzo pakistano di 14 anni diventato in tutto il mondo il simbolo della lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile. Ceduto dalla sua famiglia di contadini ridotti in miseria, in cambio del prestito di 26 dollari, costretto a lavorare in una tessitura di tappeti dall'alba al tramonto, incatenato al telaio, in condizioni disumane, come milioni di altri bambini nei Paesi più poveri del mondo, Iqbal troverà la forza di ribellarsi, di far arrestare il suo padrone, di denunciare la "mafia dei tappeti", contribuendo alla liberazione di centinaia di altri piccoli schiavi. Introduzione di Gad Lerner.

Francesco D'Adamo

L'autore. Francesco D’Adamo è nato nel 1949 a Milano, dove vive e lavora. Scrittore, giornalista e insegnante, è stato tra i primi, agli inizi degli anni ’90, a percorrere la strada del noir all’italiana. Nel 1999 ha esordito nella narrativa per ragazzi col romanzo Lupo Omega (Edizioni EL), finalista ai premi «Cassa di Risparmio di Cento», «Città di Penne» e «Castello» di Sanguinetto. Il suo romanzo Storia di Iqbal, «Premio Cento 2002», tradotto e pubblicato negli Stati Uniti, nel 2004 è stato segnalato dall’American Library Association come libro «raccomandato e degno di nota», e ha avuto il «Premio Christopher Awards (USA)».

 

 

Chi è Iqbal Masih? È un ragazzino pakistano di 12 anni diventato in tutto il mondo il simbolo della lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile. Ceduto dalla sua famiglia di contadini ridotti in miseria, in cambio del prestito di 26 dollari. Ecco la sua storia. Ci sono Paesi dove i bambini anziché andare a scuola sono costretti a lavorare. Il Pakistan è uno di questi e Iqbal era uno di quei ragazzi obbligati a passare ore ed ore ad annodare tappeti. Uso l’imperfetto perché il piccolo operaio che difendeva gli amici che come lui erano schiavi di qualche padrone, è morto a dodici anni per motivi che non si conoscono. La sua storia la potrete conoscere venerdì sera, 17 novembre, grazie al film Iqbal – Bambini senza paura che sarà trasmesso a partire dalle 21,15 su Rai3 in prima visione assoluta. Questa pellicola, uscita in Francia nel 2015, ora arriva per la prima volta in Italia dove sulla storia del piccolo pakistano è stato pubblicato il romanzo Storia di Iqbal scritto da Francesco d’Adamo. La storia. Il film racconta di questo bambino povero che ha imparato dalla sua famiglia l’arte di annodare tappeti con i raffinatissimi nodi detti bangapur. Un giorno per poter comprare le medicine al fratello Aziz, malato, viene avvicinato dall’impostore Hakeem: l’uomo gli promette le medicine di cui ha bisogno se realizzerà un tappeto per l’amico Guzman. In realtà Iqbal finirà male e verrà venduto a Guzman che è un produttore clandestino di tappeti che sfrutta il lavoro nero dei bambini che restano imprigionati in quell’officina senza poter far ritorno a casa. Ma Iqbal non si arrende. Tela dopo tela, nodo dopo nodo, elabora un piano per fuggire e liberare anche gli altri bambini operai Fatima, Emerson, Maria, Ben, Salman e Karim. La vita di Iqbal. Una storia ispirata alla vera vita di Iqbal che se fosse ancora vivo, oggi, avrebbe 34 anni. Nato da una famiglia poverissima, a quattro anni già lavorava e a cinque fu venduto dal padre a un produttore di tappeti per pagare un debito. Da quel giorno trascorse la sua vita dietro a un telaio per dieci-dodici ore al giorno. Passarono anni ma nel 1992 Iqbal riuscì a fuggire per partecipare con altri ragazzi a una manifestazione contro lo sfruttamento minorile. Quando tornò dal suo padrone si rifiutò di continuare a lavorare. Lo picchiarono ma lui non si arrese al punto da dover lasciare con la sua famiglia il villaggio. Iqbal fu ospitato in un ostello, cominciò a studiare, a viaggiare, a partecipare a incontri internazionali per portare la sua testimonianza proprio sulla questione del lavoro minorile nel suo Paese. Un cammino che si fermò il giorno di Pasqua del 1995 quando il bambino operaio e difensore degli altri ragazzi morì misteriosamente. In sua memoria... A Iqbal sono dedicate molte scuole anche in Italia. Questo film in onda su Rai3 ci ricorda quanti Iqbal ci sono nel mondo. Si contano più di 150 milioni di “fratelli” del piccolo pakistano: in Africa lavora un bambino su tre prevalentemente nell'agricoltura familiare e nel piccolissimo commercio. In America Latina lavorano il 15 - 20% dei bambini al di sotto dei 15 anni e non pochi di loro sono anche ragazzi di strada: si occupano delle piantagioni ma vanno anche nelle miniere e nelle fabbriche d'abbigliamento. Ma anche in Italia secondo l’associazione “Save The Children” sarebbero 350 mila i bambini e gli adolescenti che lavorano magari proprio nell’azienda di famiglia.

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29 maggio 2018 2 29 /05 /maggio /2018 20:15
Francesco D'Agostino (foto di Sandro Riotta), La Meschita. Il quartiere ebraico di palermo, Kalòs Edizioni (collana Le Tessere), 2018

E' di recente uscito in libreria (2018), per i tipi di Kalòs (collana Le Tessere), il volume La Meschita. Il quartiere ebraico di Palermo, scritto da Francesco D'Agostino, con le fotografie di Sandro Riotta. Il volume è nato dalla passione di Francesco D'Agostino, professore di matematica, ma instancabile raccoglitore di memorie e di notizie documentali sull'antico quartiere ebraico di Palermo, passione che ha prodotto articoli ed anche un volume (assieme a Loredana Fiorello) concepito per le scuole, con una disamina storica del percorso degli Ebrei dalla Diaspora alla Shoah.
Da questa sua passione, con il pieno sostegno dell'Istituto Siciliano Studi Ebraici cui Francesco D'Agostino è affiliato, mentre Sandro Riotta ne è collaboratore esterno e amico, sono nati anche degli specifici percorsi guidati all'interno della Meschita, di cui lo stesso professore è stato il promotore, non mancando - come è (o come dovrebbe essere) in tutte le imprese culturali -  di creare un piccolo "vivaio" di conoscitori a cui trasmettere una così preziosa legacy.
Il volume che, in forma ancora più compiuta di precedenti pubblicazioni, rivela una delle basi fondamentali della vocazione multietnica di Palermo, verrà presentato il 10 giugno 2018, alle ore 13.00 all'Orto Botanico di Palermo, in occasione della manifestazione cultural-libraria dedicata all'editoria indipendente, Una Marina di Libri, che giunge alla sua nona edizione e che verrà inaugurata giovedì 7 giugno.

Oltre a Francesco D'Agostino e a Sandro Riotta, interverranno alla presentazione del volume Evelyne Aouate, Presidente dell'Istituto Siciliano di Studi Ebraici, e Alessandro Hoffmann, Direttore di Radio Spazio Noi, già docente Università degli Studi di Palermo.

 

Francesco D'Agostino (foto di Sandro Riotta), La Meschita. Il quartiere ebraico di palermo, Kalòs Edizioni (collana Le Tessere), 2018

(Nota editoriale di presentazione) Non è dato sapere quando gli ebrei giunsero a Palermo, la prima notizia certa della loro presenza risale al 598 d.C. Intorno all’anno Mille, poco fuori le mura meridionali e sulle rive del non più visibile torrente Kemonia, gli ebrei palermitani edificarono il loro sobborgo, l’harat al-Yahud (quartiere dei giudei), e vi abitarono sino all’espulsione del 1492. La Giudecca, a cui si accedeva attraverso la Porta di Ferro (Bab al-hadid), era suddivisa in due contrade: la Meschita e la Guzzetta, un dedalo di vicoli, piazzette, orti e giardini. La realizzazione della via Maqueda prima e della via Roma poi ne causò lo sventramento, sconvolgendo l’assetto viario originario. La Guzzetta fu quasi completamente cancellata, della Meschita rimangono invece poche e rare tracce. Nel percorrere le strade così come si presentano oggi, con un po’ d’immaginazione il visitatore attento, seguendo l’itinerario qui proposto, può scoprire il fascino che questi luoghi conservano e tornare a respirare antiche atmosfere.

 

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28 maggio 2018 1 28 /05 /maggio /2018 09:20
Lewis Shiner, Visioni Rock (Glimpses), Fanucci Editore, 1999

Ci sono dei libri che possiedono un magico appeal. Li compri attratto dal titolo e dall'impostazione grafica della copertina, forse anche dal contenuto di cui ti rendi conto per sommi capipoi magari stanno lì ad occhieggiare dallo scaffale dove li hai riposti per anni, ogni tanto li prendi e li sfogli, dando loro con l'occasione una spolverata, ma poi li posi, poichè il tempo della lettura non è ancora maturo. Poi, finalmente un giorno, il richiamo si fa irresistibile lo afferri preso quasi da un raptus per intraprenderne la lettura.

Così è stato per l'opera di Lewis Shiner, scrittore di SF poi uscito dalla nicchia per diventare uno scrittore mainstream con elementi fantastici, Visioni Rock (titolo originale: Glimpses, nella traduzione di Simona Fefè), pubblicato a suo tempo (1999) da Fanucci nell'interessante collana AvantPop che rappresentò un'apertura ad istanze letterarie diverse, non unicamente ascrivibili ad un genere.

Siamo nel 1988, a quasi un ventennio dalla fine del grande sogno del rock anni Sessanta (quello dell'impeto creativo, rivoluzionario e dissacrante) e dalla scomparsa di alcuni dei suoi personaggi iconici. Ray Shackleford, un quarantenne forgiato negli anni '60, ex-musicista e figlio dei fiori, si dedica alla riparazione di impianti stereo e vive la classica crisi di mezza età (con un matrimonio traballante). Un giorno, in modo del tutto inconsapevole, scopre di poter realizzare un miracolo: con le cuffie in testa, Paul è in grado di far venire dal suo impianto stereo  grandi temi della musica rock, soprattutto quelle canzoni o quei concept album che per motivi diversi, ma soprattutto per la morte improvvisa del loro autore non erano mai riusciti a venir fuori dallo stato di bozza, di accenno.
Miti della musica rock, nel periodo in cui le grandi cione degli anni Sessanta andavano scomparendo o cambiavano direzione alla loro creatività.
Ray a questo punto si chiede se per caso, se quella musica visionaria fosse giunta al suo culmine proprio con la realizzazione di quelle opere interrotte il decorso della storia non sarebbe stato differente.
E, quindi, decide di far vivere quelle musiche. Inzia con la canzone dei Beatles dispersa, per poi dedicarsi a "The Celebration of the Lizard" di Jim Morrison, Ma quando arriva il turno di Brian Wilson (e tutto il suo lavoro ruotante attorno a Smile) e a Jimi Hendrix, riesce addirittura a ritornare indietro nel tempo e a incontrarsi con i suoi idoli: tutto, naturalmente, avviene nella sua mente.

Il suo obiettivo è salvare quella musica che non era mai nata in forma compiuta, ma anche "salvare" dalla morte prematura, i musicisti che l'avrebbero creata. Un progetto ambizioso che, segretamente, è mosso dal desiderio di riscattare la propria vita e darle un senso, nel momento in cui deve confrontarsi con la morte improvvisa del padre (che - come egli stesso scoprirà - potrebbe essere stato un suicidio) e con il fallimento della propria vita matrimoniale.Sino ad un certo punto Ray riuscirà nel suo intento, ma con il rischio - con queste immersioni sempre più profonde nella sua mente nel passato - di perdere se stesso.
Il suo desiderio è di salvare le reliquei della musica che ha amato, di farla rivivere nell'apoteosi del suo splendore: ma questo progetto è mosso fondalmente dal fatto che continua ad abitare in un passato mitizzato, una sorta di Paradiso perduto, una dimensione edenica mai più ritrovata.

Lewis Shiner, Visioni Rock, Fanucci, 1999, quarta di copertina

L'interesse del libro è nella minuziosa ricostruzione della vita e dell'ambiente di questi grandi personaggi del rock, ma anche nella rappresentazione di come possa essere difficile elaborare il lutto e lasciar andar le cose, concentrandosi piuttosto nel momento presente.

E' questo il faticoso percorso che dovrà intraprendere Ray per uscire da una dolorosa contemplazione del passato e delle rovine di un tempo glorioso, luoghi che possono essere rivistati appunto come testimonianze e reliquie, come parte di un sito di archeologia musicale e dell'immaginario, anche se la vita è andata avanti in direzioni diverse da quelle che avrebbe potuto imboccare.

Ho letto questo romanzo ascoltando attraverso (e, all'occasione, anche guardando) i filmati di youtube le musiche citate, autentici documenti audiovisivi di un tempo del mito e del sogno (quando se non c'era la tecnica, c'erano tuttavia nei musicisti e nei produttori la passione e l'impeto visionario): e questa colonna sonora di cui ho potuto godere ha rappresentato indubbiamente un elemento di piacere addizionale.

L'autore. Lewis Shiner (Eugene, 30 dicembre 1950) è uno scrittore statunitense.
Shiner iniziò la sua carriera come uno scrittore di fantascienza, vicino alla corrente cyberpunk, passando successivamente a scrivere romanzi mainstream con elementi fantasy. Ha risieduto in Texas, per poi trasferirsi in Carolina del Nord.
Molti dei suoi romanzi hanno come tema la musica rock, specialmente legata ai grandi musicisti degli anni 1960-1970: The Doors, Brian Wilson, The Beatles e Jimi Hendrix nel romanzo Visioni rock del 1993; Slam (1990) è basato sulla cultura punk e anarchica.
Due suoi racconti, Fin quando voci umane non ci sveglieranno (Till Human Voices Wake Us, 1984) e Mozart con gli occhiali a specchio (Mozart in Mirrorshades, 1985), sono stati inseriti nell'antologia della fantascienza cyberpunk Mirrorshades curata da Bruce Sterling nel 1986.

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19 maggio 2018 6 19 /05 /maggio /2018 20:20
Chuck Hogan, The Town. Il Principe dei ladri, Piemme

Sono arrivato alla lettura di The Town. Il principe dei ladri, opera prima di Chuck Hogan (Piemme 2006-2010, nella traduzione di Luisa Corbetta) solo di recente. Il volume, comprato subito dopo aver visto il film di Ben Affleck nel 2010, è rimasto a giacere sugli scaffali di casa. Molto di recente mi è capitato di rivedere quel film in TV, malamente a causa delle continue pause pubblicitarie e in maniera incompleta. Forse proprio per questo motivo sono andato a ripescare il libro e ne ho intrapreso la lettura, trovandolo più complesso della storia cinematografica e forse anche più lento, ma la la lentezza dello story telling scritto è incompatibile con i tempi cinematografici che devono esssere più incalzanti e maggiormente incentrati sull'azione.
Il titolo originale è "Prince of Thieves", ma nell'edizione italiana, per motivi puramente commerciali è stato inserito il titolo del film, in prima battura.

La storia è ambientata a Charlestown, un sobborgo di Boston al di là del fiume, cresciuto attorno al momnumeto commemarativo sulla sommità di Bunker Hill, luogo di una celebre battaglia tra le truppe britanniche e gli insorti della nuova nazione (che in questa circostanza furono sconfitti rovinosamente). Gli abitanti di Charlestown hanno tuttora un forte senso di appartenenza e non si considerano Bostoniani, ma cittadini di "The Town": si tratta di persone che discendono da famiglie che qui abitato da generazione e che non vorrebbero mai andare via da questo luogo in cui sono le loro radici.

Ma le prospettive di lavoro a The Town sono esigue: le principali attività che sono in declino ed è per questo che Charlestown è celebre per il fatto di avere il primato come città in cui vi è il più elevato tasso annuale di rapine a banche, uffici postali e a portavalori.

Di ciò ci avverte l'Autore, mediante due citazioni da articoli giornalistici riportate in epigrafe.

Il romanzo per questo motivo non è semplicemente un poliziesco o action, ma possiede indubbiamente una valenza socialogica, proprio perchè fornisce al lettore uno spaccato di questa società, fortemente radicata, senza sbocchi lavorativi e, per questo motivo, disponibile ad intraprendere delle attività criminali. Ma è nello stesso tempo un'occasione per spingere il lettore al viaggio pur rimanendo tra le quattro mura della sua stanza: un viaggio che, in questo caso, è a Charlestown, sobborgo di Boston: e, tra l'altro, ci sono stato, quando andai a Boston a correre la Maratona. Alloggiavo in un grande hotel proprio a The Town, a due passi da Bunker Hill.

Il monumento celebrativo di Bunker Hill a Charlestown (Boston)

Nel romanzo, Doug McRay è appunto uno dei rappresentanti di ultima generazione della popolazione autoctona di Charlestown: assieme a tre suoi amici di sempre mette a punto delle rapine in cui tutto, grazie ad un accurato studio preliminare, funziona egregiamente, come una macchina ben oliata e quasi senza imprevisti, e in questo, Doug è un capo insdiscusso: il più bravo. Ma nella sua mente si è insinuato un bisogno di cambiamento e di evasione da una vita condotta pericolosamente in modo da dover sfiorare sempre il tracollo e il disastro, con una continua oscillazione tra l'adrenalina dei colpi messi a punto e la grigia quotidianità, dal momento che la prudenza impone di non vivere alla grande, malgrado il denaro facile a disposizione. E' già stato in prigione, ha dei trascorsi di alcolismo e ne è uscito, grazie alla sua frequentazione di AA: adesso probabilmente cerca qualcosa di diverso, ma ancora lui stesso non sa bene cosa stia cercando. Forse, una forma di riscatto.
Insomma, mentre dentro di lui si aprono queste prospettive, si manifestano nella banda delle incrinature, in foma di conflitti e di infrazioni al rispetto di uno schema di comportamento attento e senza concessioni a margini di errore. Le crepe si allargano e si manifestano dei conflitti tra i quattro, perchè trapela la voglia di Doug - capo carismatico - di andare lontano, spezzando le catene di quei vincoli di solidarietà in cui non si riconosce più.
A fare da catalizzatore è Claire Keesey, direttrice dell'ultima filiale di banca rapinata. Doug si innamora di lei (almeno crede) con la tenacia dell'Alcolista che rimane impigliato in una ricaduta e tutto comincia a tremare con l'instabilità di un castello di carte.

(Dal risguardo di copertina) Claire Keesey, direttrice di filiale di un istituto di credito di Boston, viene presa in ostaggio durante una rapina. I banditi sono quattro: Doug, Jem, Gloansy e Dez. "Fanno banda" sin dai tempi della scuola, e oggi sono rapinatori affiatati, precisi, spregiudicati e inafferrabili. Sono cresciuti insieme a Charlestown, un quartiere di Boston dove "guadagnarsi il pane" equivale a svaligiare una banca. Ma Doug, il cervello della banda, non aveva messo in conto che, insieme con una montagna di quattrini, dal colpo in banca si sarebbe portato a casa anche un cuore ferito. Gli sono bastati pochi attimi per innamorarsi di Claire. Continua a pensarla, dopo la rapina: sa dove abita, la segue, fa in modo di incontrarla, di sedurla.

Chuck Hogan al San Diego Comic-Con nel 2014

L'Autore. Chuck Hogan è uno sceneggiatore e scrittore statunitense. Autore di numerosi e acclamati romanzi, tra cui Lo stallo e Il principe dei ladri, che ha vinto il Premio Hammett nel 2005 ed è definito uno dei dieci migliori romanzi dell'anno da Stephen King. Il principe dei ladri è stato adattato per il cinema da Ben Affleck, che nel 2010 ha diretto ed interpretato il film The Town.
Più di recente Hogan è stato coautore di una trilogia di romanzi horror scritta a quattro mani con Guillermo del Toro, composta da La progenie (2010), La caduta e Notte eterna (2011).
A partire dal 2014 ha collaborato nuovamente con del Toro per adattare la trilogia nella serie televisiva The Strain, trasmessa da FX.

 

 

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15 maggio 2018 2 15 /05 /maggio /2018 08:14
Matsumoto Seicho, Tokyo Express, Adelphi Editore (Collana Fabula), 2018

Di Matsumoto Seichō, in Italia sono stati già pubblicati alcune detective story che, essendo comparsi nella collana dei Gialli Mondadori, hanno ricevuto una marcata appartenenza ad un genere. Adelphi, con l'uscita di Tokyo Express (Adelphi, 2018) ha compiuto la meritoria azione di pubblicare un romanzo prima inedito nella sua collana di narrativa Fabula, riconoscendo pertanto l'importanza letteraria di un autore che è stato definito da molti che lo hanno già letto come il "Simenon" giapponese.
Questo Tokyo Express è davvero intrigante: un giallo indiziario, in cui l'acume e la lucidità di ragionamento dei due poliziotti coinvolti nel caso - ad un diverso livello delle indagini - riescono a risolvere il mistero di ciò che appare come il doppio suicidio di due amanti, trovati morti per intossicazione da cianuro, l'uno accanto all'altro sulla riva di una suggestiva caletta nell'isola di Kiushu. Ed è soprattutto Mihara Kiichi della polizia metropolitana di Tokyo, forte delle interessanti intuizioni del detective locale, il primo a svolgere i primi rilievi sul posto e ad indagare, colui che cercherà di demolire quella che, a suo intuito, è una falsa verità, stando sulla traccia come un segugio, con sagacia e determinazione.
Siamo di fronte ad un mistero, analogo a quello del topos dell'omicidio in una camera chiusa, solo che qui l'ipotesi del doppio suicidio è apparentemente inconfutabile per via della invincibile matematica dei numeri, che nella fattispecie sono gli orari ferroviari.
Si arriva volentieri sino alla fine, risucchiati dal meccanismo narrativo.
Il volume è arricchito da una cartina geografica del Giapponeutile al lettore al lettore per seguire visivamente i percorsi ferroviari tra Tokyo e Kiushu, tra Tokyo e l'isola di Hokkaido che sono di fatto uno dei principali protagonisti, rendendo il plot anche un un racconto di viaggi che si intrecciano e da un dizionarietto dei termini giapponesi più utilizzati.

(Risvolto di copertina) In una cala rocciosa della baia di Hakata, i corpi di un uomo e di una donna vengono rinvenuti all’alba. Entrambi sono giovani e belli. Il colorito acceso delle guance rivela che hanno assunto del cianuro. Un suicidio d’amore, non ci sono dubbi. La polizia di Fukuoka sembra quasi delusa: niente indagini, niente colpevole. Ma, almeno agli occhi di Torigai Jūtarō, vecchio investigatore dall’aria indolente e dagli abiti logori, e del suo giovane collega di Tokyo, Mihara Kiichi, qualcosa non torna: se i due sono arrivati con il medesimo rapido da Tokyo, perché mai lui, Sayama Ken’ichi, funzionario di un ministero al centro di un grosso scandalo per corruzione, è rimasto cinque giorni chiuso in albergo in attesa di una telefonata? E perché poi se n’è andato precipitosamente lasciando una valigia? Ma soprattutto: dov’era intanto lei, l’amante, la seducente Otoki, che di professione intratteneva i clienti in un ristorante? Bizzarro comportamento per due che hanno deciso di farla finita. Per fortuna sia Torigai che Mihara diffidano delle idee preconcette, e sono dotati di una perseveranza e di un intuito fuori del comune. Perché chi ha ordito quella gelida, impeccabile macchinazione è una mente diabolica, capace di capovolgere la realtà. Non solo: è un genio nella gestione del tempo.
Con questo noir dal fascino ossessivo, tutto incentrato su orari e nomi di treni – un congegno perfetto che ruota intorno a una manciata di minuti –, Matsumoto ha firmato un’indagine impossibile, ma anche un libro allusivo, che sa con sottigliezza far parlare il Giappone.


L'autore. Seichō Matsumoto (松本清張, nome d'arte di Kiyoharu Matsumoto; Kitakyūshū, 21 dicembre 1909 – 4 agosto 1992) è stato un giornalista e scrittore giapponese.
Nasce a Kokura (oggi Kokura Kita Ku, quartiere di Kitakyūshū), Fukuoka. Abbandona gli studi ancora giovanissimo e lavora per diversi anni in una tipografia.
Nel 1942 lavora per la rivista Journal Asahi, dove riesce anche a pubblicare alcuni racconti storici.

 

Matsumoto Seiko all'età di 55 anni

Nel 1953 vince il premio Akutagawa (premio in onore dello scrittore e poeta Ryūnosuke Akutagawa) per una cronaca storica: questo successo gli permette, nell'arco di pochi anni, di dedicarsi a tempo pieno all'attività di scrittore.
Dal 1955, infatti, inizia a pubblicare racconti gialli di stampo prettamente realistico, in netto contrasto con l'allora vigente letteratura gialla giapponese, impregnata di elementi spesso fantastici.
Nel 1957 vince il premio del Club degli scrittori polizieschi per una sua antologia. Lo stesso anno la rivista Tabi pubblica a puntate il romanzo La morte è in orario, che riscuote grande successo di pubblico ed è tradotto in molti paesi esteri.
Le tematiche dei suoi gialli affondano spesso le radici nei problemi sociali giapponesi, il tutto unito ad una predilezione per l'indagine strettamente logica ed intuitiva. Spesso Matsumoto è chiamato il Simenon giapponese.
La sua produzione vanta più di 300 romanzi, oltre a molti racconti, che hanno riscosso successo in tutto il mondo. In Italia sono usciti solo tre dei suoi romanzi, nella collana Il giallo Mondadori. Nel febbraio 2018 Adelphi ha pubblicato, nella collana Fabula, una riedizione di Ten to sen con il titolo di Tokyo Express.
Muore di cancro il 4 agosto 1992.

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11 maggio 2018 5 11 /05 /maggio /2018 08:25
Maria Attanasio, La Ragazza di Marsiglia, Sellerio Editore, 2018

E' uscito in questi giorni il nuovo romanzo di Maria Attanasio, La Ragazza di Marsiglia (Sellerio, 2018), in cui si racconta della vita di Rose (meglio conosciuta come Rosalia) Montmasson, compagna e moglie di Francesco Crispi, al tempo dell'impresa dei Mille e sua ispiratrice.

(dal risguardo di copertina) Unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille, protagonista del Risorgimento, per vent’anni moglie di Francesco Crispi (si erano sposati a Malta nel 1849) Rosalia Montmasson è stata cancellata dalla storia, rimossa dai libri e dalle memorie dell’epoca.
Maria Attanasio che ha una speciale vocazione per tratteggiare la vita di donne che hanno lasciato il segno nel loro Tempo (vedi ad esempio, "Di Concetta e altre donne", sempre per i tipi di Sellerio), ne ha seguito le tracce, ripercorso i luoghi, scavato tra cronache e documenti, appassionandosi alla vita di questa donna dal temperamento straordinario, ribelle a ogni condizionamento e sudditanza.
E ce la racconta in un romanzo sulla libertà di pensiero che è quasi una storia al femminile sul Risorgimento.
Chi sfogliasse l’album dei Mille, galleria fotografica degli eroi dell’impresa garibaldina, al n. 338 troverebbe la foto di Rosalia Montmasson Crispi, l’unica donna che si imbarcò alla volta della Sicilia. Di lei poi non si seppe più nulla, svanita nelle carte pubbliche e private, rimossa dalla memoria nazionale e oggi restituita alla sua grandezza grazie a una scrittrice da sempre attratta da figure ribelli e anticonformiste. Eppure Rosalia non era una donna qualunque, per vent’anni fu la moglie di Francesco Crispi, di cui aveva condiviso ideali e azioni. Si erano conosciuti a Marsiglia e poi Torino nel 1849, negli anni della cospirazione risorgimentale, Rosalia l’aveva seguito nell’esilio a Malta dove si erano sposati e dove si mantenevano con il lavoro di lei, lavandaia e ricamatrice. E poi a Londra, a Parigi, al servizio della causa mazziniana senza paura e senza riserve si era fatta cospiratrice e patriota, sempre al fianco del suo Fransuà, così chiamava Crispi. Alla vigilia della spedizione di Garibaldi in Sicilia lei si presentò. Il Generale era stato chiaro, né mogli, né madri, né volontarie, sulle navi non voleva donne, ma di fronte alla determinazione della ragazza cedette e non se ne pentì: fu protagonista di quella sollevazione di popolo che fu la spedizione dei Mille, ricevette la medaglia dalle mani dell’eroe dei due mondi, il riconoscimento del ruolo svolto, la pensione.
Poi, dopo l’Unità, le divergenze e i contrasti tra Rosalia e Fransuà si accentuarono, politicamente e personalmente: Crispi, ormai uomo di governo, tradì gli ideali mazziniani che li avevano uniti, sopraggiunsero per lui altre passioni. Sposò un’altra donna e accusato di bigamia negò la validità del precedente matrimonio con Rosalia, facendo sparire le carte. Una autentica impostura; eppure Rosalia era stata per vent’anni Madame Crispi, accolta a casa del Maestro Mazzini, come a corte dalla regina Margherita che per lei nutriva una istintiva simpatia. Annullato il matrimonio sparì anche Rosalia, dalla vita di Crispi, dai libri e dalla memoria, una totale rimozione della storia risorgimentale che si è protratta fino ad oggi.

Aggiungo che alcuni anni fa (nel 2011), in occasione del Cinquantenario dell'Unità d'Italia, a Ribera, venne inaugurato un gruppo scultoreo, in memoria di Francesco Crispi, suo cittadino illustre, realizzato dietro commissione della Giunta comunale di Ribera, allora presieduta dal sindaco Carmelo Pace, dal maestro Salvatore Rizzuti.

Lo scultore che ebbe commissionata l'opera volle includere nel gruppo statuario, in forma trasfigurata,  anche Rosalia Montmasson, riconoscendo in ciò l'importanza di questa figura nella figura del Francesco Crispi patriota e facitore dell'Unità d'Italia.
Per approfondimenti vedi nel sito web dello scultore siciliano, il suo personale commento all'opera monumentale.

 

Il gruppo scultoreo dedicato a Francesco Crispi, a Ribera, inaugurato nel 2011, opera dello scultore Salvatore Rizzuti

Ecco quanto scrissi a suo tempo, a commento della galleria fotografica, varata sul mio profilo Facebook.
"Il 27 dicembre 2011 ha avuto luogo. a Ribera, l'inaugurazione del gruppo statuario dedicato allo statista Francesco Crispi (1818-1901).
Un atto quasi "dovuto", grazie alla determinazione del sindaco di Ribera Carmelo Pace, visto che la cittadina dell'Agrigentino ha avuto l'onore di dare i natali ad una figura complessa e poliedrica che, indubbiamente, a pieno titolo si può considerare uno dei padri fondatori dell'Unità italiana e uno di quelli che, da statista, fece grande l'Italia che faceva i suoi primi passi nel consesso delle grandi nazioni.
La realizzazione di un gruppo scultoreo, di una statua o di un semplice busto, dedicati a Francesco Crispi, qui a Ribera, ha avuto delle vicisitudini tormentate, come ha bene illustrato Mimmo Macaluso, e nel corso degli anni non ha mai avuto un esito felice: sono sopravvenuti ogni volta fatti contrari, inaspettati eventi, non volontà politica, sino alla a felice congiuntura delle celebrazioni del Centocinquantenario dell'Unità e grazie al supporto dato a questa causa dall'Onorevole Giuseppe Ruvolo, parlamentate di origini riberesi.
Il gruppo scultoreo di innovativa conzezione rispetto alla retorica della statuaria pubblica che immortalò più volte Crispi, all'inizio del Novecento, è opera del Maestro Salvatore Rizzuti: si tratta di un'opera in bronzo e marmo, significativa per il suo stile, volutamente anti-retorico, ma nello stesso tempo carica di simbolismo e che accoglie, altrettanto significativamente, un personaggio femminile, carico anch'esso di simbolismo, ispirato a Rosalie Montmasson, al tempo compagno (e poi sposa) del Crispi ed unica donna presente nella Spedizione dei Mille; si tratto anche di una realizzazione significatica in un'epoca in cui le amministrazioni pubbliche sono sempre più restie ad investire in statue di grandi proporzioni che servano al radicamento e al rafforzamento della memoria della collettività.

La rappresentazione trasfigurata e arricchita di simpbolismi di Rosalia Montmasson, compagna e moglie di Francesco Crispi, nell'interpretazione di Salvatore Rizzuti

La cerimonia d'inaugurazione (avvenuta in grande stile, con la partecipazione di tutti i sindaci della Provincia d'Agrigento) è stata preceduta da tavola rotonda, in cui si sono succeduti il Presidente del Consiglio Comunale di Ribera, il medico Mimmo Macaluso (animatore della manifestazione e appasionato raccoglitore di documenti relativi all'epoca del Crispi), lo storico Ignazio Parrino che ha parlato delle relazioni che legano la figura di Crispi a Ribera e a Palazzo Adriano, Maurizio Crispi (che ha parlato brevemente dell'importanza dello statista all'interno della sua famiglia), e Raimondo Lentini di Ribera, storico locale che ha illustrato i complessi legami tra la famiglia Crispi, con tutte le sue ramiicazioni, e Ribera.
Contestualmente, è stata inaugurata una piccola mostre di documenti, illustrazioni e altri importanti reperti (molti originali) messa a disposizione dallo stesso Mimmo Macaluso".

Mi piace citare quest'evento, in quanto Salvatore Rizzuti, ponendo accanto a Francesco Crispi, una presenza femminile che, spogliata di incrostazioni simboliche (ad esempio, la spada che tiene in mano), si ispira per diretta ammissione dell'Artista a Rosalie Montmasson, è stato un pioniere di questa rivistazione storiografica di questa figura risorgimentale, di cui in forma romanzata narra Maria Attanasio.

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8 maggio 2018 2 08 /05 /maggio /2018 08:31
Biagio D'Angelo, Non ci resta che correre, Rizzoli Editore, 2017

Biagio D'Angelo nel suo primo libro Non ci resta che correre. Una storia d'amore e di resistenza (Rizzoli Editore, 2017) è riuscito a raccontare egregiamente e senza retorica quello che può essere il viaggio dentro il pianeta della corsa di lunga durata, a partire da un primo aprroccio casuale e da spettatore, quando si ritrovò da turista a osservare dall'esterno i tantissimi corridori che sfilano per le strade della Grande Mela, in occasione dell'appuntamento annuale con la Maratona più celebre del mondo. Del tutto casualmente, dopo quell'esperienza (a svolgere una funzione di catalizzatore è l'incontro con Edoardo Vaghetto, reduce da quella maratona, in aeroporto a NY) Biagio prende a correre e inizia un lungo viaggio che lo porterà a correre la sua prima maratona, a Venezia.

Come sanno tutti quelli che si sono sperimentati in questo campo, di un vero e proprio viaggio si tratta: tra passaggi da luoghi dove non si sarebbe mai andati senza la scusa della corsa e incontri con tantissime persone, praticanti e non, che hanno da raccontare delle storie. Come sottolinea Kagge, nel suo libro sul camminare, anche la corsa specie quella lenta (non quella dei top runner, per intenderci) è una corsa che porta verso se stessi, che spinge a pensare e a riflettere, ad elaborare un pensiero creativo, ad osservare il mondo con freschezza e a incontrare gli altri, a raccontare le proprie storie e ad ascoltare quelle di altre. Il libro di Biagio è, così, tante cose assieme: viaggio, avventura, introspezione, scoperta di luoghi e di persone. E, intanto, con il passare dei capitoli, Biagio accumula sempre più chilometri corsi, comincia a sperimentarsi sul terreno delle non competitive e non, sino alla sua prima Mezza maratona e oltre.
E ad ogni singolo  step di questo percorso, egli si ritrova a scoprire, con meraviglia, mondi sempre nuovi, mondi di cui avrebbe continuato ad ignorare l'esistenza se fosse rimasto nel chiuso di una palestra. Ed è davvero una splendida avventura quella che egli persegue successivamente nel passaggio dalla Mezza alla Maratona.
Il lettore attento si accorgerà che il libro si conclude con lo start della Maratona di Venezia che, al momento di chiusura del volume, dovrebbe rappresentare il culmine della sua esperienza podistica. Manca il racconto della Maratona di venezia: cosa avrà visto, cosa avrà sentiti, quali emozioni avrà sperimentato lungo i fatidici 42 e 195 metri, quale sarà stato il suo stato d'animo quando ha tagliato il suo primo traguardo di maratona. Tutto questo rimane in sospeso e avvolto in un silenzio che può riservarsi soltanto alle esperienze indicibili o a quelle che ti riempiono così tanto che, almeno inizialmente, debbono rimanere come una pagina non scritta del proprio diario di bordo.
E' un libro in cui chiunque abbia fatto l'esperienza della corsa amatoriale può riconoscersi: apprezzando con piacere che egli si rivolge a quelli come lui, cioè a coloro che amano la corsa lenta. Volutamente egli non si occupa della corsa agonistica dei top runner, lasciando quest'aspetto ai cronisti sportivi. Lui, come tanti, vuole essere un podista lento e come tale può divertirsi nel senso più puro del termine e sperimentare sempre cose nuove con freschezza d'animo.
Vorrei spendere alcune parole per spiegare come mi sono imbattuto in questo libro.
Alla 6 ore di Mondello 2017, l'8 dicembre, ho incontrato Edoardo Vaghetto uno dei personaggi della corsa di lunga durata che popolano le pagine di Non ci resta che correre e a cui Biagio D'Angelo ha dedicato un intero capitolo dal titolo "La Corsa di Edoardo" (e, in quell'occasione, Edoardo, ovviamente, inossidabile come sempre, benchè già a metà strada tra i 75 e gli 80 anni, partecipava).
Mi ha chiesto se avessi già letto questo libro. Io gli risposi: No, non ancora! (bluffando sul fatto che il suo passaggio dalle librerie mi fosse sfuggito)! Solitamente, seguo molto da vicino tutte le new entry editoriali in questo campo, perchè mi piace leggere e poi scrivere le recensioni per il mio magazine.
Lui mi disse (senza menzionare il fatto che  ci fosse un capitolo a lui dedicato: un bell'esempio di modestia) che nel tuo libro si parlava anche di Enzo Cordovana e che lui intendeva portarne una copia ai familiari. Enzo ci ha lasciato dopo una breve, inattesa, malattia un paio di anni fa. Anche lui, come me psichiatra: quando - senza aver mai partecipato ad una gara podistica e senza aver mai corso - gli venne la voglia improvvisa di cimentarsi nella sfida dei 100 km, si rivolse a me per chiedermi dei consigli. Allora, in Sicilia (siamo alla fine degli anni Novanta) quelli che avevano già corso delle 100 km erano delle autentiche mosche bianche e i neofiti si ispiravano - chiedendo eventualmente guida e consigli - a quei pochi che già vi si erano sperimentati.
Io molto volentieri gli diedi le dritte necessarie: fu così che diventammo rapidamente amici e compagni di corse e di viaggi per una stagione durata diversi anni.
Tramite Enzo il Verbo delle Ultramaratone si diffuse anche ad altri del suo entourage professionale ed egli diivenne per questo motivo ispiratore anche di Edoardo: si erano conosciuti per affinità di residenza - Enzo abitava a Ficarazzi e Edoardo a Bagheria, ad un tiro di schioppo, praticamente.
Per la prima 100 km di Edoardo (il suo "battesimo") partimmo, infatti, in tre: io, Enzo (che aveva già superato con successo la fase di neofita e che mi spingeva verso altre e più impegnative imprese di ultramaratona) e l'esordiente Edoardo.
Dopo questo breve colloquio con Vaghetto, ho preso nota mentalmente del titolo del libro di Biagio D'Angelo e dì lì a poco l'ho acquistato.
Sin dalle prime battute, ho sentito che questa lettura mi avrebbe spinto a scrivere una recensione "ispirata", poichè vi ho potuto cogliere il mio percorso attraverso la corsa e attraverso le mie espeienze di scrittura di cose di corsa (se penso soltanto agli anni di collaborazione con podisti.net), con un'attenzione - direi minuziosa ed empatica - alle persone e ai luoghi.
A me che già scrivevo, la corsa diede uno straordinario impulso alla scrittura, spingenomi a sperimentarmi in territori diversi dalla saggistica scientifica: non so perchè ciò accadesse.
Dovevo scrivere di tutto: la partecipazione ad una gara di corsa (oppure il compiere un semplice allenamento) mi imponeva come sottoprodotto quasi necessario (per il compimento di un'elaborazione interiore) un intenso impegno di scrittura per raccontare la gara, la sua atmosfera, la mia esperienza, i miei stati d'animo, cosicchè ogni allenamento, ogni gara, si trasformavano ina sorta di viaggio meraviglioso.
E credo che sia proprio questa l'essenza della corsa che - se si riesce a evitare di viverla come una non-esperienza, cioè come una attività coatta (come a tanti capita: e sono tanti gli amatori che la trasformano in un secondo lavoro) - possa essere un'occasione di perfetta sintesi di conoscenza del proprio corpo (inteso come psico-soma), delle proprie emozioni e di affinamento della capacità di osservazione interna ed esterna e, non ultima cosa - di slatentizzazione del senso della meraviglia (o, se vogliamo, di recupero del nostro sguardo dei bambini che fummo sulle cose).
Il libro mi è piaciuto, senza deflessioni, nel passaggio da un capitolo all'altro. In particolare, mi è piaciuta questa continua alternanza tra il punto di vista interiore, i bozzetti di realtà filtrati dallo sguardo dello scrittore e le narrazioni concernenti altri personaggi della corsa, accolte da Biagio con curiosità empatica.
Quando si entra nel mondo della corsa si può avere l'impressione di entrare in un pianeta a se stante, o forse meglio, in un universo, un intero macroverso che si fa microverso, attraverso la raccolta di microstorie individuale, ciascuna delle quali può acquistare delle valenze universali e può insegnare tante cose. E la stessa sensazione la si può avere se si passa dall'esperienza della Maratona a quella delle Ultra, partendo dalla 100 km per approdare alla realtà delle Ultra a tempo su circuito.
La corsa è un'occasione preziosa per stare con se stessi (forse anche per riconciliarsi con se stessi) e per incontrare altri, che si presentanoil più delle volte a nudo, con sogni e speranze che non è possibile vedere quando si indossa la corazza protettiva della vita di tutti i giorni

Biagio D'Angelo

(dal risguardo di copertina) Con il suo primo libro, Biagio D’Angelo scrive una dichiarazione d’amore coinvolgente, commovente e autoironica, che appassionerà tanto i runner di lungo corso quanto i neofiti alle prese con i primi chilometri
«Facciamo un brindisi» dice allora la Vale a voce alta. «Alla maratona.» Come altri brindano alla pace nel mondo, al futuro, all’anno nuovo, all’amore, alla bellezza o ad altre cazzate che salveranno il mondo, noi brindiamo alla maratona. È già qualcosa.
Il momento in cui ti innamori, anche se mentre lo vivi non te ne rendi conto, innesca conseguenze impreviste e irreversibili. È ciò che succede anche al protagonista di questo libro, quarantacinque anni, padre separato, quando un sabato pomeriggio di marzo mette su la prima maglietta di cotone che gli capita, un paio di vecchie scarpe e invece di andare in palestra tira dritto e comincia a correre lungo il Naviglio: due chilometri all’andata e due al ritorno. Perché sì, è della corsa che si innamora. Di quella cosa che “si fa per non impazzire”, per tornare bambini o per preparare “il viaggio più bello della vita”: la prima maratona. Ed è così che nasce questo libro che parla di running, da leggere tutto d’un fiato come un romanzo. Perché a dare il passo all’autore ci sono tanti personaggi incredibili: per esempio c’è Edoardo, che scopre la corsa a sessant’anni sotto gli sguardi irridenti dei suoi compaesani e che oggi, a settantotto, è il secondo ultramaratoneta al mondo della sua categoria; c’è Constantin, che corre in stampelle dopo l’amputazione di una gamba; c’è Mahanidhi, prototipo del corridore-cercatore; c’è persino Chet Baker, che appare come una visione in un’alba nebbiosa alle porte della città. E c’è appunto Milano, la Milano del Parco Sempione e quella delle periferie, di tanti luoghi nascosti e tanti sguardi possibili solo all’occhio di chi li attraversa correndo.ù
L'autore. Biagio D'Angelo è nato a Messina e vive a Milano. Da oltre vent'anni si occupa di comunicazione, collaborando con diversi marchi nazionali e internazionali. Dal 2016 con l'agenzia K words realizza progetti di welfare aziendale. Non ci resta che correre (Rizzoli 2017) è il suo primo libro. Il suo sogno è quello di poter scrivere un giorno un romanzo: d'altra parte corsa e scrittura si coniugano perfettamente come ci ha mostrato Haruki Murakami, nel suo "L'Arte di Correre", in cui la corsa quotidiana alimenta la scrittura e viceversa in un circolo in cui è difficile poter dire cosa abbia originato cosa.

 

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30 aprile 2018 1 30 /04 /aprile /2018 10:53
"Il romanzo di un'incredibile storia vera"

"Il romanzo di un'incredibile storia vera"

Walter Veltroni, L'Isola e le Rose, Rizzoli, 2012

(Maurizio Crispi) Non sono un fan di Walter Veltroni come politico, ma amo leggere i suoi libri (non tutti mi sono capitati a tiro: per esempio, due sicuramente li ho beccati, in occasione, di trasposizioni cinematografiche): e quelli che ho avuto modo di leggere sono stati per me rivelatori nell'autore e nell'uomo di sensibilità umana, di acume intellettuale e di profondità culturale.

Per questi motivi, ho gradito molto il suo romanzo "L'Isola e le Rose" (Rizzoli, 2012)  - un romanzo-verità per l'esattezza, uscito nel 2013 e da me letto soltanto in quest'ultimo periodo. Lo "strano caso" dell'Isola delle Rose aveva attirato la mia attenzione già nel 2010, forse in occasione dell'uscita con DVD con libro in cui è il suo ideatore Giorgio Rosa a raccontare quella breve, folgorante avventura. E ne scrissi anche un articolo che venne pubblicato sulla testata online "Siciliainformazioni" con la quale a quel tempo collaboravo (articolo che è riportato in calce a questa recensione ed anche come link per poter accedere alla sua collocazione originaria).
Fu quello del riminese Giorgio Rosa  (scomparso il 3 marzo 2017) e dei suoi amici un sogno che si concretizzò nell'estate del 1968, proprio quando la stagione delle contestazioni giovanili era al suo apice. Concepita inizialmente per essere un punto di ritrovo e di svago, l'isoletta artificiale, una piattaforma di poco più di 400 metri quadri, sorretta su piloni, venne edificata fuori dalle acque territoriali italiane: e per questo motivo (almeno agli esordi) garantita dal Diritto internazionale, ebbe successivamente un'evoluzione, quando i suoi fondatori, sviluppando ulteriormente la loro "visione", fondarono una vera e propria nazione con tanto di statuto costitutivo, una nazione che ebbe i suoi primi francobolli, una sua moneta e una propria lingua (che, in accordo, con il sogno di fratellanza universale dei fondatori fu l'Esperanto). Il sogno ebbe vita breve, però. L'occhiuto potere politico del tempo, non gradendo il fatto che i fondatori della neonata micronazione avessero dato vita ad una radio libera, quando ancora l'etere era monopolio dello Stato, e soprattutto le multinazionali del petrolio (vedi alla voce ENI) ne decretarono la fine. Dopo appena 55 giorni dalla proclamazione di stato autonomo, l'Isola - con un blitz concertato delle forze dell'ordine di terra e di mare - venne impietosamente smantellata.
Un mero esercizio di imperio ebbe la meglio sul sogno e sull'idealismo.
Walter Veltroni con quest'opera ha voluto riproporci nostalgicamente la storia di quell'avventura visionaria e idealistica in forma romanzata, ma i fatti sono tutti veri e puntuali. Fanno da triste epitaffio alla narrazione, il cui marchingegno è fondato sul ritrovamento nel tempo presente di un contenitore a chiusura ermetica che contiene manufatti e ricordi dell'Isola delle Rose e della sua breve stagione, tre foto realizzate da uno dei protagonisti di quell'avventura (adombrato nel personaggio con il nomiglolo di "Scatta", per via della sua passione per la fotografia) al momento dell'esplosione delle cariche di tritolo fatali.
In fondo, si potrebbe senz'altro dire, che l'Isola delle Rose - benchè sia stata distrutta - sia rimasta sempre lì al di fuori della linea delle acque territoriali, dove aguzzando lo sguardo forse i sognatori la possono ancora vedere tra le brume del primo mattino e del tramonto.
E, in effetti, c'è un espressione idiomatica in uso tra i Riminisi e i loro vicini marchigiani  che appunto dimostra quanto quest'isolotto-nazione sia entrato nell'immaginario collettivo.
Già, ciò che non piacque all'establishment del tempo (quando ancora la guerra fredda era in pieno vigore, tra l'altro: e ciò porto alla paranoia di possibili azioni spionistiche) era l'attuazione di un'utopia libertaria, in cui si dimostrava che una una "micronazione" poteva nascere, vivere e gestirsi senza tanti apparati burocratici, ma soltanto per via della cooperazione entusiastica di pochi uomini di buona volontà e armati soprattutto di buone intenzioni.
Si legge con vero piacere.

 

(Dal risguardo di copertina) Giulio è un incorreggibile vitellone, Giacomo fa l'avvocato, Lorenzo è il figlio del proprietario del Grand Hotel, Simone era il genio della classe ed è diventato un inquieto ingegnere: quattro ragazzi di Rimini uniti da un'amicizia nata sui banchi di scuola e destinata a superare qualunque contrasto. Quando Giulio ha un'idea folle - costruire una piattaforma appena oltre il limite delle acque territoriali, dove accogliere una comunità di artisti, poeti, musicisti, amanti della bellezza - tutti si danno da fare per realizzarla: anche Elisa, dolce secchiona con lo chignon nero, anche Laura, giovane giornalista conquistata dal progetto, e una barista dalla bellezza esplosiva, Luana. Siamo alla vigilia del 1968, e niente sembra impossibile. Il nuovo romanzo di Walter Veltroni prende le mosse da un episodio vero e dimenticato per raccontare la nascita, a undici chilometri dalla costa, di un'isola artificiale che richiama turisti da tutta Europa, l'idea di una micronazione indipendente, l'Isola delle Rose (anzi, Insulo de la Rozoj, visto che la lingua ufficiale è l'esperanto), e l'invenzione di una radio libera. Parla di amori, tradimenti, debolezze, slanci, padri che muoiono e figli che riscoprono sentimenti perduti e, come nelle migliori commedie all'italiana, vitalità e allegria rivelano un fondo di tenerezza e di malinconia. È il romanzo di un'utopia contrastata dal potere e di un sogno che valeva la pena vivere.
 

Walter Veltroni

L'Autore. Figlio di Vittorio, dirigente della Rai, morto quando Walter aveva un anno. Si diploma presso l'Istituto di studi cinematografici e televisivi e si iscrive giovanissimo al Pci, ne diventa, solo ventunenne, consigliere comunale a Roma, carica che manterrà fino al 1981. Nell'87 entra come deputato in Parlamento. Favorevole alla svolta della Bolognina, è stato direttore dell'Unità. Nel 1996 condivise la leadership dell'Univo con Prodi e, vinte le elezioni, venne nominato vicepresidente del Consiglio e Ministro per i beni culturali. Nel 2001 viene eletto sindaco di Roma, carica che gli verrà riconfermata nel 2006 con il 61,5 % dei voti favorevoli. Nel 2007 entra nel Comitato Nazionale del neonato Partito Democratico e dichiara di non volersi alleare in futuro, se eletto alla segreteria, con i partiti della sinistra. Cade quindi il Governo Prodi. Veltroni viene eletto, dopo una consultazione popolare tra gli iscritti, Segretario del PD. Perse le elezioni nazionali del 2008, ceduta Roma alle destre, e perse le elezioni regionali, si dimette dalla carica di Segretario del PD.
Si è molto impegnato per i sostegni all'Africa, ed è anche autore di alcune opere di narrativa, tra cui Noi (2009), L’inizio del buio (2011), L’isola e le rose (2012), E se noi domani (2013), Quando c’era Berlinguer (2014), tratto dall'omonimo documentario per il cinema, Ciao (2015) e Quando (2017), tutti pubblicati da Rizzoli.
È anche regista di I bambini sanno (2015), Indizi di felicità (2017) e della serie televisiva Gli occhi cambiano (2016).

 

L’Isola delle Rose: la breve vita del sogno di un uomo libero
di Maurizio Crispi
(www.siciliainformazioni.com, 18 agosto 2010
)

Una rara immagine dell'Isola delle Rose

Nella nostra epoca di separatismi, di regionalismi, della crescita smodata della voglia di autonomie locali, dello sviluppo di piccole enclave separate (il più delle volte puramente "virtuali") che, anche nella forma semplice ed elementare del "gruppo" in Facebook, assumono la fisionomia di vere e proprie micronazioni, l’utopia dell’ingegner Giorgio Rosa avrebbe avuto un esito diverso.
Ma chi è e cosa fece Giorgio Rosa?
Nel 1964 Giorgio Rosa, ingegnere – oggi ottantenne – progettò e costruì, per la SPIC (una società industriale specializzata in iniezioni di cemento) una piattaforma artificiale di 400 metri quadrati situata in acque internazionali nel Mar Adriatico al largo della città italiana di Rimini (a 11.612 km dalla costa, ovvero circa 6 miglia marine) allo scopo di sperimentare un nuovo materiale per palafitte marine. Successivamente vi costruì un ristorante, un negozio, un ufficio postale e un night club e progettò di attivare un servizio di catamarani che collegassero la piattaforma alla terraferma.
Così racconta Rosa in un intervista rilasciata a Romano Guatta Caldini (Giorgio Rosa e l’isola che non c’è) «Nell’immediato dopoguerra, con una laurea in ingegneria industriale meccanica mi buttai a capofitto nella progettazione di cantieri. La mia passione rimaneva però il mare e fu così che nel 1957 cominciai a pensare a un’opera che potesse resistere all’impeto delle onde. Solo nel 1964 avviai le prove: si trattava di costruire a terra la struttura e poi portarla in galleggiamento in mare aperto dove il fondale fosse accessibile. Il progetto è riconosciuto come brevetto 850.987 dal titolo Sistema di costruzione di isole in acciaio e cemento armato per scopi industriali e civili»
Ma l’esistenza di questa piattaforma fuori dalle acque territoriali attivò immediatamente una reazione "politica" intesa a stroncare quello che dalle diverse parti politiche era considerato un rischioso antecedente (sulla base di posizioni differenziate). Giorgio Rosa, comprendendo che, pretestuosamente (con l’argomentazione che quello stesso spazio era stato dato in concessione all’ENI) il suo progetto sarebbe stato presto bloccato, per tutelare la continuità della sua "creazione" il 24 giugno 1968 – basandosi sul diritto internazionale – Giorgio Rosa proclamò la piattaforma stato indipendente e sovrano, ispirandosi in ciò anche ad un antecedente illustre quello del Principato di Sealand, fondato poco tempo prima – nel 1967 – ed edificato anch’esso su di una piattaforma costruita in mezzo all’oceano sull’appoggio di due enormi piloni di calcestruzzo (una storia che vide una più duratura fortuna, poichè il Principato di Sealand esiste tuttora).

 

L'Isola delle Rose, ancora in costruzione

L’annuncio ufficiale della nascita della neo-repubblica (che, dopo l’adozione dell’Esperanto, decisa per dare alla repubblica un tocco di internazionalità in più, prese il nome di Libera Teritorio de la Insulo de la Rozoj – Libero Territorio dell’Isola delle Rose – trasformatosi poi in Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj – Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose) venne dato in una conferenza stampa e, contestualmente, poco dopo vennero emesse due serie di francobolli, recanti il simbolo dell’isola (tre rose rosse in campo bianco), venne identificato un inno nazionale (il wagneriano "Steuermann! Laß die Wacht!" de L’Olandese volante), nominate alcune cariche pubbliche di base e stabilita una toponomastica del piccolo stato («Ogni lato della piattaforma aveva il nome di una via, il numero progressivo indicava il relativo vano…»), con il progetto anche di battere moneta propria e, sicuramente, delle emissioni commemorative. Ma gran parte di queste azioni rimasero sulla carta: non vi fu materialmente il tempo di andare oltre, perché ancora più accesi si attivarono opposizione politica e dibattito parlamentare, venato quest’ultimo di forti ansie paranoidi e complottiste, come – del resto – era nello spirito del tempo.
Fra i primi a inalberarsi furono i missini che, infervorati dal pericolo comunista, accusarono Rosa di aver costruito la struttura per farvi attraccare sommergibili sovietici. Seguirono i comunisti convinti che l’esperimento dell’ingegnere altro non fosse che una trovata del leader albanese Henver Hoxa per destabilizzare gli assetti marittimi, dopo aver dato il ben servito alla combriccola del patto di Varsavia. Li seguivano i democristiani, che si scagliarono contro Rosa, preoccupati, che la neo-nata Repubblica potesse trasformarsi in un’isola del proibito e della trasgressione.
Dopo esattamente 55 giorni dalla dichiarazione d’indipendenza, decine di motovedette della guardia di finanza e dei carabinieri circondarono la piattaforma impedendone l’accesso a chiunque, Rosa compreso. Quest’ultimo inviò anche un appello all’allora presidente Saragat, perché l’isola fosse restituita ai legittimi proprietari. Non avendo, Rosa, alcuna protezione politica alle spalle, l’appello cadde nel vuoto. «Non avevamo risorse, eravamo soli. Quando il Consiglio di Stato diede parere favorevole alla demolizione, non feci ricorso. Meglio lasciar perdere.(…)» dirà l’Ingegnere. Nel febbraio ‘69, infatti, gli artificieri della marina militare minarono i piloni con 1.080 chili di dinamite. Nonostante due serie di esplosioni ci vorrà una burrasca per inabissare definitivamente l’isola.
Così, si concluse l’avventura del’ingegner Giorgio Rosa, un’avventura nata per "gioco" e poi trasformatasi in un dramma farsesco.
Fu il tentativo di dar vita ad una piccola utopia, fallito purtroppo anzitempo.
Ma come accade con le cose che si cerca di cancellare dal mondo con interventi repressivi, "l’isola che non c’è" dell’ingegner Rosa sopravvive tuttora come una delle imprese più affascinanti che un uomo possa immaginare, insieme sogno di un uomo libero e impresa – per alcuni versi – "piratesca", non casualmente avvenuta nel rivoluzionario 1968. E la sua fortuna fu legata sia alla partecipazione popolare alle sue diverse fasi sia alle risonanze che ebbe la sua tragica conclusione: da considerare a tutti gli effetti, secondo alcuni storici, come l’unica guerra di "aggressione" condotta dall’Italia repubblicana (vivaci e intense furono le proteste degli albergatori romagnoli che avevano visto nell’idea di Rosa un’attrazione in più nel proprio territorio, come pure tanti turisti che affollavano le spiagge romagnole seguirono con apprensione venata di sdegno l’esito "militare" della vicenda).
La memoria dell’Isola delle rose è ancora viva, oggi, tra la Romagna e le Marche, dove se ne è parlato tanto e se ne parla tuttora, tanto che, quando nella conversazione o nel confronto quotidiano uno rompe le "scatole", qualcun’altro – a volte – usa dire: "Prima o poi mi costruisco un’isola delle rose tutta per me"!
In una recente intervista rilasciata a Marco Imarisio, per il Corriere della Sera, proprio Giorgio Rosa ha fatto presente che la sua isola esiste ancora. Basta infatti andare su google maps e, digitando Insulo de la Rozoj, si vedrà apparire la bandierina rossa, proprio là dove una volta sorgeva l’Isola. In più si può aggiungere che l’Isola delle Rose non solo ha lasciato delle tracce di sé in fondo al mare (dove alcuni sommozzatori hanno scoperto i resti della struttura di acciaio e cemento), ma nella rete: sono, infatti, innumerevoli i siti web che ci parlano dell’Isola delle Rose e degli eventi che vi furono collegati, oltre a collocarla nel contesto più ampio dei cosiddetti "micronazionalismi" in cui per "micronazione" s’intende un’entità – anche virtuale, nelle più estreme ed attuali. declinazioni – che, creata da un singolo individuo o da un piccolo numero di persone, pretende di essere considerata come nazione o stato indipendente, e che, nella più parte dei casi, non è riconosciuta dai governi e dalle maggiori organizzazioni internazionali.

 

L'Isola delle Rose. La libertà fa paura

Il termine di "micronazionalismo" è nato negli anni ’70 per descrivere le tantissime entità che nascevano in quel periodo, in genere di piccole dimensioni e di esistenza effimera: cionondimeno si tratta di un movimento tuttora vivo, tanto che in un recente convegno internazionale, alcune micronazioni si sono definite Quinto mondo, probabilmente in senso polemico in relazione alla nota scala economica che classifica le nazioni del mondo in primo, secondo, terzo e quarto mondo).
La storia dell’Isole delle Rose è tuttora vivissima anche nelle inizative del mondo editoriale.
Il 9 giugno, alla Manifattura di Bologna è stato presentato un cofanetto DVD+libro (L’isola delle Rose, a cura di Cinematica, NDA Press, 2010), il cui interesse risiede tutto nel documentario contenuto nel DVD e realizzato dalla Biograffilm con un affresco di un intero periodo storico.
Invece, nel documentario inedito allegato al volumetto proposto da Dati (2009) con il titolo L’isola delle Rose (con DVD) e curato da V. Benini, C. Bombarda, C. Mitchell, è l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa in prima persona a raccontarci le tappe principali dell’incredibile vicenda dello stato indipendente dell’Isola delle Rose.

Giorgio Rosa

Giorgio Rosa

Molto interessante questo breve documentario che spiega il concetto di "micronazione" e l'evoluzione nel XX secolo di questi piccolissimi stati con una sovranità soltanto virtuale e praticamente senza un territorio proprio, a partire dal fenomeno ben noto del Principato di Sealand. Una micronazione è un'entità creata da una persona, o da un piccolo numero di persone, che pretende di essere considerata come nazione o stato indipendente, ma che tuttavia non è riconosciuta dai governi e dalle maggiori organizzazioni internazionali Il termine è nato negli anni settanta del XX secolo per descrivere le tantissime "entità autodichiarate" che nascevano in quel periodo, in genere di piccole dimensioni e di esistenza effimera. Recentemente alcune micronazioni si sono definite quinto mondo, probabilmente in senso polemico in relazione alla nota scala economica che classifica le nazioni del mondo in primo, secondo, terzo e quarto mondo

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23 aprile 2018 1 23 /04 /aprile /2018 09:58
Come se io fossi te. Andrea Caschetto e Azzurra: il racconto coinvolgente di un viaggio dell'anima

Non smetterò mai di viaggiare il mondo.
E fra la gente, sentirmi a casa.
Tutti dovremmo sentirci a casa sempre.
Spogliarci dell’uniforme che indossiamo nel quotidiano e finalmente essere noi.
Diversi l’uno dall’altro.
È nell’abbraccio alla diversità che si consuma il futuro prossimo del mondo
Sono qui per imparare e per trasformare la paura in meraviglia

Andrea Caschetto, Come se io fossi te (Pretesti)

Andrea caschetto, Come se io fossi te, Chiarelettere, 2017

Andrea Caschetto, dopo l'esperienza descritta in "Dove nasce l'Arcobaleno" (Giunti) in cui ci ha raccontato il suo giro del mondo per orfanatrofi, con la missione di portare il sorriso a 8008 bambini (con il corollario che il 22 marzo 2016, nella Giornata della Felicità, egli sia stato invitato a parlare alle Nazioni Unite, in "Come se io fossi te" (pubblicato da Chiarelettere nel 2017) Caschetto, ci ha regalato il racconto di un'altra impresa di viaggio scaturita dalla sua forte attitudine empatica.

Andrea Caschetto, a ragione, è stato definito un "campione del sorriso" o anche un "ambasciatore del sorriso", ma possiede anche la capacità di immergersi nel lato malinconico delle cose e delle persone, dal momento che possiede il dono dell'empatia, scaturente dal fatto di essere stato lui stesso colpito da una malattia neurologica - un tumore cerebrale, da cui è stato operato e che lo ha lasciato con un lieve deficit della memoria -e di essere passato attraverso il tunnel della malattia che gli ha lasciato qualche stigmate.

In questa nuova avventura, Andrea Caschetto, profondamente legato sentimentalmente ad una ragazza, Azzurra di nome, divenuta per incidente paraplegica e confinata su di una sedia a rotelle, decide di partire per un viaggio nella lontana Argentina, assieme ad una sedia a rotelle che battezza "Azzurra". Perchè l'Argentina? Ma perchè l'Azzurra in carne ed ossa ha sempre deisderato visitare questo paese e adesso da paraplegica avrebbe difficoltà ad andarci. Perchè portando con sé la carrozzina (identica per tutto e per tutto a quella utilizzata da Azzurra) e utilizzandola, egli vuole vedere questa parte del mondo come la vedrebbe Azzurra, cimentandosi con tutte le difficoltà con cui la donna Azzurra dovrebbe cimentarsi se fosse con lui, per vedere il mondo al posto suo e per lei, per imparare a capirla meglio e per dichiararle così il suo amore.
Questo suo viaggio ha il valore del compimento di un voto, di una promessa, di un pellegrinaggio ed è anche, in altri termini, un "viaggio dell'anima".
Come scoprirà Andrea, cimentandosi con mille difficoltà e con le barriere architettoniche, con un mondo che al 90% non è pensato per persone con difficoltà motorie, il fatto di essere su una carrozzina (non sempre però, perchè le difficoltà si fanno estreme, può sempre chiuderla e caricarsela sulle spalle), l'essere su una carrozzina, oltre a dargli un punto di vista fisico differente (vedere il mondo con uno sfguardo che va dal basso verso l'alto), lo fa diventare catalizzatore di incontri e di racconti.

Ed è così che egli durante il suo viaggio ha potuto raccogliere storie ed aneddoti, storie di persone che si aprono con lui, forse più facilmente che se fosse in piedi sulle sue gambe: storie divertenti, commoventi, con un lieto fine o con un finale malinconico, a seconda delle persone che incontra via via e dei luoghi in cui sono ambientate le narrazioni. E nello stesso tempo, Caschetto ci fornisce il duplice punto di vista, su come sono il mondo e le persone viste dallo sguardo di una persona che cammina sulle sue gambe e da quello di chi sta seduto in carrozzina; e, in contemporanea, i vissuti di un modo di essere e nell'altro. Sostanzialmente eguali, ma resi differenti dal fatto che ancora, nei più diversi contesti, la persona con difficoltà motorie - il disabile o diversabile, si potrebbe anche dire - non sono pienamente "normalizzati" e dunque possono incarnare una diversità, un "altro da sè" difficilmente assimilabile (con la conseguenza di un'inevitabile barriera comunicativa, che qualora venga superata con un sforzo attivo di "andare verso l'altro", lascia sorpresi ed anche pieni di speranza.
E poi ci sono mille incontri ciascuno dei quali è memorabile, mai banale e suggellato dalla capacità epatica che è la sua forza intrinseca, potenziata dall'essere sulla carrozzina e che sancisce una "diversità" non omologabile, una "diversità che è pronta ad accettare e ad accogliere le diversità altrui, comprendendole.
Il mondo visto da una carrozzina: Andrea Caschetto propone con il suo racconto un'esperienza memorabile e che tutti dovrebbero fare propria. Tutti, probabilmente dovrebbero fare l'esperienza di stare su di una carrozzina a ruote, cercando di farsi avanti con traversie e difficoltà in ambienti spesso irti ancora oggi di barriere architettoniche. Lo stare su di una carrozzina a rotelle, spingendosi da sè o spinto da altri, arricchirebbe anche sicuramente il proprio bagaglio spirituale, consentendo di affinare gli strumenti per comprendere meglio chi disabile lo è per davvero.
E' questo il senso del "carrozzina day", di recente istituito presso alcune amministrazioni comunali in Italia, Ma è anche questo il senso di includere in alcuni sport per disabili chi disabile non è, come ad esempio nel Basket per disabile il cui regolamento ammette la presenza in squadra di un elemento non disabile, purchè giochi anche lui in sedia a rotelle, quindi con analogo handicap.
Spesso con mio fratello Salvatore Crispi, dalla nascita disabile per aver contratto una tetraplegia perinatale e grande "lottatore" per la tutela dei dirittti delle persone con disabilità, abbiamo discusso di questi aspetti e del fatto che spesso la parte attuativa delle normative esistenti sull'abbattimento delle barriere architettoniche è messa nelle mani di persone che disabili non sono. Mentre, invece, prima di realizzare definitivamente determinate opere occorrerebbe chiedere ai disabili delle diverse tipologie di "provare" i percorsi protetti e il tipo di dispositivi realizzati per il superamento (o l'abbattimento) delle barriere: facendo un vero e proprio "collaudo", qualitativamente valido, insomma.
Come anche, nelle scuole dei diversi livelli, occorrerebbe insegnare ai giovani la capacità empatica nei confronti delle persone con disabilità, studiando degli opportuni percorsi didattivci, tra i quali potrebbe avere un'importante funzione quella di dedicare delle ore di esperienza preziosa sulla carrozzina a rotelle, oppure quella altrettanto importante di provare ad essere come i non vedenti.
La carrozzina del disabile può assumere in sè una forte valenza simbolica: ed è così che Vincenzo Marino, impegnato a Palermo nel fronte della tutela dei diritti dei disabili e pedagogista, dopo la morte di mio fratello, ha preso a portare con sè la sua carrozzina vuota (l'ultima da lui usata), per ricordare a tutti attraverso l'assenza e la mancanza la sua presenza ancora costante in spirito in tutte le manifestazioni che riguardano i disabili.

 

Andrea Caschetto

(dal risguardo di copertina) Andrea Caschetto ha inaugurato la categoria dei viaggi necessari. Il suo è un turismo dell’anima, dove i luoghi sono le persone e le persone sono i luoghi. Andrea è un viaggiatore lento, perché serve tempo per ascoltare davvero le vite degli altri, per entrare in punta di piedi nelle esistenze, laddove la porta viene aperta, e con garbo accarezzarle e accudirle. E non crediate che questo tempo sia perso: prima o poi ritorna, in forme e sembianze mai uguali, ed è linfa per il mondo. Questo viaggio nasce da varie necessità, che nell’ordine sono: esaudire il desiderio di una ragazza molto amata che ama l’Argentina ma non può andarci; imparare che la disabilità ha bisogno di manutenzione e non di cure, perché non è una malattia; e ancora, raccontare la straordinaria meraviglia della diversità, dando voce agli Invisibili. E allora via, lungo le strade dell’Argentina. Unica compagna, una sedia a rotelle, metafora del vivere disabile. Da usare per sedersi e per far sedere, per confidarsi e far confidare. Per raccontare storie e invitare a raccontarle. A proposito, la sedia ha un nome. Si chiama Azzurra, come la ragazza amata che ama l’Argentina e finalmente, con Andrea, ci è andata. Perché la realtà ha la forma che uno vuole darle. E i sogni contano.

L'autore. Andrea Caschetto ha 26 anni ed è uno straordinario viaggiatore. I suoi migliaia di amici virtuali lo conoscono come l’ambasciatore del sorriso grazie ai colori e alle parole dal mondo che posta sulla sua pagina Facebook. La sua voglia di regalare sorrisi, comunicare idee, immagini e sogni lo ha fatto diventare un vero e proprio catalizzatore internazionale di positività fino a portarlo alle Nazioni Unite, dove, il 20 marzo 2016, ha parlato di felicità a una nutrita platea di diplomatici che lo hanno ringraziato con una magnifica standing ovation.

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14 aprile 2018 6 14 /04 /aprile /2018 12:34
Annamaria Piccione, E' arrivato l'ambasciatore, Matilda Editrice (Collana Crisalidi e Farfalle), 2016

Ha avuto un grande successo di pubblico per "E' arrivato l'ambasciatore", una deliziosa storia di emigrazione e di incontri felici, scritta da Annamaria Piccione e inizialmente pubblicata da Mammeonline Comunicazioni Snc nel 2013 e succesivamente rilanciata da Matilda Editrice (ma si tratta sempre della stessa casa editrice che, nel frattempo ha cambiato nome) nella collana "Crisalidi e Farfalle", con numerose ristampe e, infine, una nuova edizione nel dicembre del 2016, nel circuito della piccola editoria indipendente.  
Come nel caso del volume "Dall'Atlante agli Appennini" della scrittrice e poetessa siciliana Maria Attanasio, si tratta di una storia edificante che può essere letta da tutti, non soltanto da coloro che ne rappresenterebbero un target specifico (vedi in calce al post  le caratteristiche con cui si pone la collana Crisalidi e Farfalle della casa editrice), e che ha, se vogliamo, anche un lieto fine: è una storia di emigrazione forzata, quella del giovanissimo Hakim che, partito dall'Eritrea alla ricerca del fratello emigrato da tempo e di cui si sono perse tracce e notizie, seguendo tutta la trafila del fatigante trasporto via terra, dei campi di attesa e dei barconi che passano il mare perigliosamente giunge in Sicilia per raggiungere l'ultimo luogo noto in cui è stato il fratello. Lo scopo di Hakim è quello non solo di trovarlo, ma di riportarlo a casa, poichè la madre di entrambi, a fronte della perdita di qualsiasi contatto rassicurante e non reggendo l'ansia dell'attesa, s'è ammalata, chiudendosi in un invincibile mutismo: si tratta dunque, per Hakim, di uno scopo eroico e salvifico. Quindi, non si vi si racconta soltanto di una storia drammatica di traversie, di un'odissea per mare e per terra (e noi da mass media siamo purtroppo abituati soltanto a questo e ai drammi che ne conseguono e al totale disinteresse nei confronti dei destini successivi - e dei percorsi esistenziali - delle tante vite individuali di coloro che, uscendo dall'anonimato degli "sbarchi" sono persone che, in molti casi, riescono a perseguire i propri sogni e la propria -legittima - ricerca di felicità), ma anche di incontri felici, di opportunità che si dispiegano, di integrazione per qwuanto faticosa.
E l'avventura di Hakim, appunto attraverso degli incontri fortunati, con persone buone e senza pregiudizi, ha - malgrado le traversie e l'onere del lutto - come dicevamo un lieto fine, per sé e per quelli della sua famiglia che sono rimasti in Eritrea.
Come nel caso del romanzo di emigrazione scritto da Maria Attanasio, anche questo è meritevole di lettura e dovrebbe essere il più possibile divulgato nelle scuole, perchè attraverso la narrazione si apprendono in maniera lieve le tragedie dell'emigrazione e in particolare del vero e proprio esodo che si sta verificando in questi anni dalle coste dell'Africa verso l'Europa.
Il titolo del romanzo si ispira alla famosa, omonima, canzone del Trio Lescano, più volte citata e utilizzata nel plot narrativo come stratagemma risolutivo al ripiegamento depressivo della mamma di Hakim.

(Nota editoriale) Hakim è partito dall'Eritrea da qualche anno, come tanti, “in cerca di fortuna”, come dice anche la vecchia canzone che fa da colonna sonora a questa bella storia. Ma come di molti migranti, anche di Hakim a un certo punto non si hanno più notizie e la madre cade in una grave forma di depressione. Questo spinge Ayub, il fratello più piccolo di Hakim, a partire per l’Italia per cercarlo, nella speranza anche di riportare il sorriso sulle labbra della mamma.
Un lungo viaggio in mare, a bordo di uno dei tanti barconi pieni di disperati, poi l’arrivo in Sicilia e il trasferimento in un centro di identificazione, dal quale Ayub riesce a fuggire.
E nella sua fuga frenetica finisce sotto le ruote dell’auto di un anziano medico: Michele.
Inizialmente l’intento di Michele è soltanto di soccorrere il ragazzino, con il quale stabilisce un dialogo grazie al fatto che Ayub comprende l’italiano, avendolo studiato nella scuola italiana che ha frequentato in Eritrea.
Molti sono gli eventi che si susseguono. Bello e improntato all’apertura il rapporto che nasce tra nonno Michele e Ayub.
In questo libro, in molte occasioni, sembra di ascoltare le notizie alle quali i telegiornali ci hanno abituato: fughe da paesi in guerra, trafficanti di uomini senza scrupoli, sfruttamento, pregiudizi e viaggi della speranza. Non sono molte le storie che terminano come quella di Ayub, ma perché negarsi una speranza?
È arrivato l'ambasciatore (che ha inaugurato la collana "Crisalidi e Farfalle della Editrice Matilda) tratta uno di questi temi, il libro accompagna ragazze e ragazzi nel comprendere che la nostra società, il nostro Paese, sta diventando un paese multietnico, multiculturale. Aiuta a capire che se trascuriamo valori quali l'accoglienza, la solidarietà, l'apertura agli altri che sembrano diveesi da noi non potremo mai diventarlo. Aiuta a comprendere che bisogna lottare contro gli stereotipi, che bisogna credere che le cose, i comportamenti, le scelte possono essere diverse, che un altro modo di pensare

Annamaria Piccione

L'Autore. Annamaria Piccione si occupa in prevalenza di gatti e di bambini. Parla dei primi nei libri che scrive per i secondi e in tutti i suoi testi è sempre nominata la parola “gatto”.
Per i ragazzi ha pubblicato oltre settanta libri, con le maggiori case editrici italiane, tra cui Einaudi, De Agostni, Piemme, Edizioni Paoline. Dal 2007 cura la trasposizione per i bambini delle tragedie greche portate in scena a Siracusa per le Rappresentazioni Classiche. Vive tra Siracusa e Palermo in due case di fronte al mare, protetta dall’affetto dei suoi meravigliosi cinque gatti e del cane Pablo.


La collana Crisalidi e Farfalle. Si tratta di una collana per ragazzi che stanno crescendo, non sono più bambini e non sono ancora nè adulti nè giovani adulti, sono crisalidi, a volte già farfalle, stanno vivendo quel meraviglioso ma difficile periodo della metamorfosi, che va dagli 8-9 ai 12-13 anni. E' un periodo in cui si legge anche di meno del poco in cui la media dei ragazzi di quell'età tende a leggere al giorno d'oggi, di solito, forse anche perchè non si trovano i libri giusti.
E in questa fascia della vita i giovanissimi, esattamente nel difficile periodo di transizione dall'infanzia all'adolescenza, hanno bisogno di libri che parlino di temi più importanti, che li trattino da "grandi", a che al contempo non li annoino, li divertano, anche... perchè è così che si cresce.
I libri della collana sono dei tascabili, ma realizzati con grande cura, a cominciare dalla grafica e dalle belle copertine realizzate da Antonio Boffa.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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