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21 aprile 2019 7 21 /04 /aprile /2019 09:53

"Abitanti di un mondo in declino, trepidiamo soltanto per la nostra ricchezza, proprio come i popoli vecchi, le civiltà al tramonto. E non ci accorgiamo che nelle nostre tiepide città, in cui coltiviamo la nostra artificiale solitudine, vi sono già alveari ronzanti, di rumore e di colore, di preghiera e furore. Il mondo di domani" (Domenico Quirico)

Domenico Quirico

Domenico Quirico, Esodo, Neri Pozza 2016

Esodo. Storia del nuovo millennio di Domenico Quirico (Neri Pozza Editore, Collana I Colibrì, 2016) nasce da una raccolta di reportage, supportati da un progetto unitario e scritti attraverso un'esperienza da lui fatta direttamente sui percorsi delle migrazioni dai punti di partenza negli stati dell'Africa sub-sahariana, ai punti di raccolta e di imbarco, ai transiti e, poi, ai dolenti e difficili percorsi delle miriadi di migranti in Italia e altrove in Europa. Benchè pubblicato nel 2016, mantiene intatta anche oggi una sua profonda attualità. E mostra anche come per osservare questo fenomeno occorre una corda empatica e soprattutto e sorattutto attrezzarsi per imparare a convivere con qualcosa che porterà a delle grandi irreversibili mutazioni, di marca epocale.

Anzi, a fronte del grezzo populismo di marca salviniana, dovrebbe essere riletto ancora e ancora.
E' un libro che tutti dovrebbero leggere e conoscere per farsi un'idea di prima mano su cosa significa essere migranti in questo nuovo millennio spinti dalle necessità, dalla fame, dalle guerre.
Molti su questi temi, in testa a tutti i "politici" che parlano il più delle volte spinti dai propri pregiudizi o dalle opportunità del momento, ma che nel complesso sono all'asciutto di una conoscenza vera, poiché ciò che, al massimo, assorbono sono delle rassegne stampe confezionate ad hoc dai loro stessi uffici, quindi in assenza di punti di vissta alternativi e fondati sui fatti e sulla realtà delle cose) avranno spinto di riflessione e di meditazione, traendone un modo di verso di vedere il fenomeno da quanto ci viene presentato dai notiziari TV e dai quotidiani della carta stampata che, anche loro, il più delle volte su questi temi sono sordi e ciechi.
Quest'opera di Quirico è a tutti gli effetti un libro-testimonianza, scritto da uno che, secondo il suo stile, prima di scrivere vuole mettersi in gioco di persona, toccare evedere, sperimentando su se stesso, nei limiti del possibile.
E la sua conclusione (che appare anche nel sottotitolo) deve far riflettere. E' inutile opporre argini, erigere barriere, creare ostacoli. Ciò che sta accadendo è epocale e scriverà la storia del nuovo millennio: e alla fine di questo lungo processo l'Europa e l'Occidente non saranno più gli stessi. E, in un certo senso, tutto ciò sta accadendo come Nemesi di ciò che le potenze dell'Occidente hanno fatto all'Africa con il succedersi delle spoliazioni coloniali e post-colonianli, sino al recentissimo e scandaloso fenomeno del "land grabbing" (di cui ancora una volta i quotidiani della carta stampata parlano pochissimo).

(Risguardo di copertina) Dopo lo strabiliante successo de Il Grande Califfato, Domenico Quirico ritorna con un libro che illumina l’altro evento fondamentale del nostro tempo: la grande migrazione. E' la cronaca dei viaggi fatti in compagnia dei migranti nei principali luoghi da cui partono, e in cui sostano o si riversano. In questo senso, è il racconto in presa diretta dell’Esodo che sta già mutando il mondo e la storia a venire. Una Grande Migrazione che ha inizio là dove parti intere del pianeta si svuotano di uomini, di rumori, di vita: negli squarci sterminati di Africa e di Medio Oriente, dove la sabbia già ricopre le strade e ne cancella il ricordo; nei paesi dove tutti quelli che possono mettersi in cammino partono e non restano che i vecchi.
Termina nel nostro mondo, dove file di uomini sbarcano da navi che sono già relitti o cercano di sfondare muri improvvisati, camminano, scalano montagne, hanno mappe che sono messaggi di parenti o amici che già vivono in quella che ai loro occhi è la meta agognata: l’Europa, il Paradiso mille volte immaginato.
In realtà, il Paradiso è soltanto l’albergo fatiscente di civiltà sfiancate e inerti, destinate, come sempre accade nella Storia, a essere prese d’assalto da turbini di uomini capaci di lasciarsi dietro il passato, l’identità, l’anima.
Da Melilla, l’enclave spagnola che si stende ai piedi del Gourougou, in Marocco – dodici, sonnolenti chilometri quadrati cinti da un Muro in cui l’Europa è, visivamente, morta – fino alla giungla di Sangatte, a Calais, dove la disperata fauna dei migranti macchia, agli occhi delle solerti autorità francesi, le rive della Manica con la sua corte dei miracoli, tutto l’Occidente, dai governanti ai sudditi, sembra ingenuamente credere di poter continuare a respirare l’aria di prima, di poter vivere sulla medesima terra di prima, mentre «il mondo è rotolato in modo invisibile, silenzioso, inavvertito, in tempi nuovi, come se fossero mutati l’atmosfera del pianeta, il suo ossigeno, il ritmo di combustione e tutte le molle degli orologi».
Dopo lo strabiliante successo de Il Grande Califfato, Domenico Quirico ritorna con un libro che illumina l’altro evento fondamentale del nostro tempo: la grande migrazione.

Domenico Quirico

L'autore. Domenico Quirico è giornalista de La Stampa, responsabile degli esteri, corrispondente da Parigi e ora inviato. Ha seguito in particolare tutte le vicende africane degli ultimi vent’anni dalla Somalia al Congo, dal Ruanda alla primavera araba. Ha vinto i premi giornalistici Cutuli e Premiolino e, nel 2013, il prestigioso Premio Indro Montanelli. Ha scritto quattro saggi storici per Mondadori (Adua, Squadrone bianco, Generali e Naja) e Primavera araba per Bollati Boringheri. Presso Neri Pozza, oltre a Esofo ha pubblicato Gli Ultimi. La magnifica storia dei vinti, Il paese del male, 152 giorni in ostaggio in Siria (2013), Il grande califfato (2015) e Aleppo (2017).

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18 aprile 2019 4 18 /04 /aprile /2019 07:50
Rupert Thomson, Katherine o gli inattesi colori del destino, Enne Enne Editore, 2016

Rupert Thomson è uno scrittore che indubbiamente merita di essere esplorato. A Katherine o gli inattesi colori del destino (traduzione di Federica Aceto, NN Editore, 2016) ci sono giunto attraverso la lettura di "Morte di un'assassina", pubblicato da Einaudi (Collana Stile Libero) nel 2011, che mi è piaciuto molto, anche perché si trattava di una narrazione insolita, decisamente fuori dall'ordinario e molto di qualità.

Da questo punto di partenza, come spesso mi capita nell'approccio ad autori per me nuovi, ho cercato di rintracciare altre sue opere tradotte in Italiano, e ci sono riuscito anche se con molta fatica, poichè la maggior parte non sono più disponibili nel mercato librario cartaceo, benché di pubblicazione relativamente recente (per esempio su IBS compare solo Katherine, ma in formato ebook). Alcuni li ho potuti rintracciare second hand attraverso Il Libraccio.
E quindi a poco a poco ho cominciato a leggere i suoi romanzi. Ho fatto fatica a portare avanti sino alla fine "Le cinque porte dell'Inferno", benchè anche questo fosse decisamente originale. Ma la sorpresa vera è arrivata con "Katherine..." che ha sin dalle prime battute monopolizzato in modo assoluto la mia attenzione.

La 18enne Katherine, proveniente da un embrione prodotto in vitro e successivamente impiantato nel grembo della madre dopo mesi di attesa in un congelatore, ha perso da poco la madre (portata via da un tumore) con la quale aveva un rapporto di profondo affetto e si sente abbandonata o non riconosciuta dal padre, impegnato senza soste nella sua attività di giornalista di grande fama. Conosce le sue origini e forse proprio per questa cresce la sensazione di essere figlia di nessuno: come in una spy story, matura un suo progetto, lasciandosi guidare dalle causalità e dalle coincidenze che la inducono a partire per un lungo viaggio, cancellando sistematicamente ogni traccia del suo passaggio.
Il romanzo è decisamente una storia di ricerca e di formazione, iniziata in verità come un'avventura-pellegrinaggio alla ricerca di una dissoluzione del proprio sé che, a poco a poco, attraverso un lavoro costante dei ricordi che vanno via via emergendo, consente alla giovane protagonista di desiderare di nuovo di riallacciare i rapporti con il suo passato dal quale si è sentita sradicata ed esule.
Katherine affronta un lungo viaggio dal noto all'ignoto, verso lande sempre più desolate, buie e fredde, passando da Berlino ad Arcangel'sk in Siberia, per poi approdare infine in un luogo sperduto delle Isole Svalbard, quasi ricercando un punto di contatto con le sue origini, essendo lei stata, prima ancora che figlia dei suoi genitori, figlia di una provetta.

Questo viaggio in luoghi che diventano immediatamente luoghi della mente e, nello stesso tempo, la fitta attività di fantasticherie di Kit si svolgono su note affascinanti: sino alla fine, da lettore-testimone, si vuole andare avanti assieme a lei per capire dove il suo percorso la porterà, se sarà veramente verso la dissoluzione e l'annientamento di ogni legame interno ed esterno, oppure se ci sarà una possibile redenzione e il ritorno ad una vita piena di affetti e di colori. Il romanzo si costruisce tutto attorno a questo asse: il desiderio di dissoluzione (ovvero quello di scomparire al mondo) che si trasforma in quello speculare dells rinascita ad una nuova vita di affetti, in un perfetto ciclo di morte-rinascita.
Proprio nel distacco radicale da ogni affetto, si ponfgono le premesse per la ricerca dentro di sé di più saldi punti di radicamento.

(Dal risguardo di copertina) Katherine è nata da fecondazione in vitro dopo essere stata congelata per otto anni. Da sempre avverte un vuoto, anche se da qualche tempo il destino le manda dei messaggi, piccoli indizi che trova sulla sua strada e che le riempiono la vita di colore. A diciannove anni Katherine vive a Roma, da sola: la madre è mancata dopo una malattia e il padre è spesso lontano per lavoro. Così un giorno decide di seguire i segni del destino. E scappa facendo perdere le sue tracce. Il viaggio, che la porta da Berlino fino ai confini estremi della Russia, è l’occasione per prendere consapevolezza delle sue origini e per venire a patti con l’assenza del padre e la morte della madre.
Con una prosa lucida, cristallina e cinematografica, Rupert Thomson ci racconta di una donna che con la forza del carattere riesce a portare la sua vita fuori dal vicolo cieco del passato e a lanciarsi nel futuro con coraggio, libertà e passione.
(retro di sovracoperta) Questo libro è per chi si specchia nella buccia di una mela rossa, per chi non ha mai ascoltato What a difference a day makes cantata da Shilpa Ray, per chi si sente a casa quando riconosce il profumo dei pini, e per chi ha gettato via d’impulso un oggetto del passato creando così un nuovo ricordo impalpabile {questa nota sul retro della sovracoperta, si comprende meglio se si considera che la Casa Editrice Enne Enne, nel suo sito, propone per i lettori dei suoi libri una collana sonora che accompagni la lettura di alcuni dei suoi volumi].

Rupert Thomson

L'autore. Rupert Thomson, nato a Eastbourne nel 1955, ha lavorato a Londra come copywriter per 4 anni fino a quando ha deciso di dedicarsi interamente alla scrittura. È considerato uno degli scrittori più originali delle ultime generazioni.
Tra le sue opere: Le cinque porte dell'Inferno (Bompiani, 1992), A nudo (Passigli 2004), Divided kingdom. Sei collerico, malinconico, flemmatico o sanguigno? (Isbn 2005), Il lato oscuro (Passigli 2006) e Morte di un'assassina (Einaudi 2011). Molti dei suoi romanzi non sono stati ancora in Italiano.

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14 aprile 2019 7 14 /04 /aprile /2019 18:05

Lettori - ossessivi, possessivi, ostinati, occasionali, distratti, sognatori - come tenete il segno?
Orecchietta o segnalibro?🤔
Rispondete al nostro sondaggio

Il Libraccio (Facebook Page)

segnalibri (fonte web)

Questo è l'interessante quesito - e non banale - che è stato posto in un "poll" (sondaggio) da Il Libraccio nella sua pagina Facebook.
Io, al quesito posto, ho risposto "segnalibro" (risposta che sino ad ora ha ottenuto l''80% dei consensi), anche se la semplice risposta "sì" o "no" non è di per sè esaustiva. E, pertanto, come molti altri che avevano aderito al sondaggio proposto, ho ritenuto opportuno aggiungere un mio commento che desse conto di alcune delle sfaccettature contenute, nel mio personale rapporto con i libri, tra i due corni del dilemma.
Ho condiviso nel mio profilo facebook il poll, invitando tutti i lettori a provare a dare una risposta, aggiungendo eventuali commenti esplicativi, come del resto mi sono sentito di fare io stesso, consapevole del fatto che ciascuna alternativa apre la stada ad infinite vartiazioni narrative relativamente al rapporto che ogni lettore intrattiene con i libri che si trova a leggere e allo story  telling che ne scaturisce.

Questo il mio commento al dibattito che si è attivato tra i partecipanti al sondaggio (riveduto e corretto, ma anche con qualche piccola - necessaria - aggiunta):

Segnalibro, anche se qualche volta il ricorso all'"orecchietta" si rende necessario (pur trattandosi di soluzione a breve termine).
A proposito di segnalibri, qualche volta me li creo da me, incollando delle piume trovate per strada su di un cartoncino bianco oppure su di un preesistente segnalibro e poi plastificando il tutto. Si possono utilizzare ovviamente anche fogli di carta ripiegati, cartoline, biglietti da visita, bastoncini del gelato). La fantasia nell'uso del segnalibro è di prammatica, anche se conviene avere sempre sottomano sempre un'ampia scorta di segnalibri pubblicitari di altri libri che a volte non sono triviali.
Di rigore, il segnalibro va lasciato dentro il libro finito di leggere, mai riciclato per una differente lettura. Quindi i segnalibri a disposizione devono essere necessariamente numerosi.
Personalmente, non ho alcuna remora a "macchiare" i libri. Scrivo sempre sui libri che leggo: per me non è sciuparli, ma personalizzarli. Di prammatica annotare la data di inizio e di fine dellla lettura (cosa che ad un approccio successivo mi consente di circostanziare quella prima volta, dandomi dei riferimenti per ricordarmi "come ero" e illuminarmi sulla prima chiave di lettura). Si sa che, lo stesso libro può essere letto in modo diverso nelle diverse età della vita.
A volte, i miei libri sono segnati da macchie di caffè o dalla caduta di gocce di marmellata o miele. dipende da cosa facevo mentre li leggevo.
Anche questi segni fanno parte della storia dei libri che si sono letti.
Leggere un libro significa farlo proprio, possederlo, farne un'estensione della propria mente.

Un esempio di orecchietta al libro che si legge

Vorrei ricordare qui che mettere le "orecchiette" ai libri che si leggono, come quella di sottolineare o di scrivere a margine, oppure quella di utilizzare le pagine bianche alla fine del volume per annotare pensieri che con il contenuto di quel libro non c'entrano niente, o quasi, come anche quella di incollare su alcune pagine delle decalmanie, per non parlare di quella consuetudine ben più antica di applicare a ciascun volume della propria biblioteca un ex libris personalizzato, sono considerate da taluni abitudini deplorevoli, o comunque controverse.
Ma fatto sta che ciascuno, con i propri libri, debba avere un rapporto assolutamente personale ed unico.
Io vedo maggiormente aderente con le mie attitudini di lettore il bisogno di personalizzazione di ogni libro, in ogni modo possibile ed immaginabile: ma questa mia tendenza ha preso piede e si è sviluppata nel corso degli anni. Nei miei primi anni di lettore "adulto" prevaleva il bisogno di mantenere ciascun libro il più possibile intonso. Il cambiamento è sopravvenuto più avanti forse in relazione al bisogno di costruire con ciascun libro un rapporto dialogico e di interazione, lasciando traccia di questa dialettica nel caso di una sua riapertura nel corso del tempo.

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3 aprile 2019 3 03 /04 /aprile /2019 12:18

Il "Diario" è considerato una testimonianza dell'Olocausto: questo è soprattutto ciò che non è.

Dalla òòa quarta di copertinau

Generazioni di lettori si sono abituate ad un approccio al famoso Diario di Anne Frank, in modi che sono stati distorti sia da precedenti edizioni espunte, sia dalla riduzione teatrale e poi cinematografica (si ricordare il famoso film firmato da Frank Capra). Letture che sono state determinate sia da un mal riposto rispetto nei confronti dei pensieri più intimi e crudi espressi da Anne Frank, sia da necessità ideologiche. Bisogna riportare il testo alla sua interezza e leggerlo, innanzitutto come un'opera letteraria di grande valore ed una testimonianza esistenziale, riducendo invece il sovradimensionamento di dolente racconto dell'Olocausto che esso ha ricevuto nel corso del tempo per esigenze ideologiche e/o ermeneutiche, sino a farlo divenire quasi emblema di quell'insieme di eventi e la sua Autrice un'icona quasi universale dell'innocenza ferita e mortificata. Infatti, il Diario che venne bruscamente interrotto dall'irruzione della Polizia olandese - allora al servizio dei Tedeschi invasori - nell'alloggio segreto non ha un suo finale, se non il non detto scaturente da una crescente sensazione di precarietà.
Del modo "vero" in cui si conclude la storia di Anne Frank, prima tradotta ad Auschwitz e poi da lì trasferita con una delle marce della morte a Bergen-Belsen dove morì di Tifo e di privazioni, poco prima della liberazione dei campi di sterminio, si sa da altre fonti e quindi dell'orrore dei mesi successivi all'ultimo aggiornamento non c'è nulla che sia stato scritto personalmente da Anne Frank non si sa nulla.
Questa ed altre considerazioni sull'uso spigliato e traditore del testo-testimonianza di Anne Frank sono contenute in un libro di recente - e meritoria - pubblicazione per i tipi de La Nave di Teseo. Si tratta di Di chi è Anne Frank? (titolo originale: Who Owns Anne Frank? nella traduzione di Chiara Spaziani, Collana Le Onde, 2019).

Il testo di Cynthia Ozick, proposto da La Nave di Teseo, venne originariamente pubblicato sulle pagine del "New Yorker" nel 1997.
Non era mai stato tradotto in lingua italiana.
Con lucidità l'autrice espone i motivi per i quali, secondo lei, il testo originale di Anne Frank sia stato tradito.
Le pagine del manoscritto, infatti, videro una serie di rimaneggiamenti, innanzitutto effettuato dallo stesso padre di Anne Frank e unico sopravvissuto all'Olocausto. Otto Frank, infatti, decise di omettere tutto ciò che ritenne irrilevante dal punto di vista della storia dell'Alloggio secreto: una serie di censure che indubbiamente hanno alterato l'immagine della figlia adolescente, con un'edulcorazione dei pensieri e delle emozioni. Questa prima edizione del Diario portò immediatamente alla costruzione di Anne Frank come "icona", anche perchè ai tempi della prima pubblicazione della Shoah si sapeva ancora bene. Dice la Ozick che ogni storia che si rispetti deve avere un finale e che nel Diario un finale manca. O meglio il finale - aggiunge ancora la Ozick - il lettore lo può conoscere soltanto se ha letto Primo Levi (con il suo I Sommersi e i Salvati) oppure Elie Wiesel (La Notte): quindi in ciò, secondo la Ozick, in stesso il Diario non è una testimonianza dell'Olocausto.
In ogni caso, ella dice, il Diario rivela che Anne Frank aveva della grandi potenzialità di scrittrice e che, se non fosse intervenuto quel tragico finale, avrebbe potuto realizzare grandi cose nel campo della letteratura.

 

Anne Frank, Il Diario. L'alloggio segreto, 12 giugno 1942 - 1° agosto 1944, Winaudi, 2015

Altri tradimenti furono effettuati, come ad esempio, nelle lunghe trattative che portarono alla realizzazione di una sceneggiatura per un lavoro teatrale rivolto al pubblico americano (riduzione curata dopo molte controversie sull'assegnamento del lavoro a Frances Goodrich e a Albert Hackett) e che avrebbe a sua volta ispirato il film - divenuto famoso - di George Stevens (USA, 1957).
O ancora, quando il Diario venne tradotto dall'Olandese al Tedesco, quando riferimenti ai Tedeschi invasori che avrebbero potuto urtare la sensibilità dei Tedeschi vennero ulteriormente espunti.
Solo tardivamente, il testo di Anne Frank venne pubblicato nella sua integrità (e un'edizione critica annotata e corretta di tale testo integrale venne a suo tempo pubblicata da Einaudi) e questo consentì di fare riemergere un'immagine più completa di Anne, certamente meno "buona" in alcuni suoi giudizi ed anche portatrice di sentimenti e di emozioni che potrebbero disturbare il lettore rispetto all'immagine edulcorata che era stata costruita prima proprio grazie a quei rimaneggiamenti del testo.
Insomma, sostiene la Ozick, la storia (e i testi storici e di testimonianze che ci pervengono) non dovrebbero mai essere traditi: soltanto così essi possono continuare a trasmettere intatta la propria forza.
E la stessa cosa è per la Memoria: il ricordo non deve essere mai edulcorato. E questo è un dovere morale.

(dal risguardo di copertina) Apparso per la prima volta nel 1997 sulle pagine del “New Yorker”, questo impetuoso, lucidissimo saggio di Cynthia Ozick strappa il velo di dissimulazione e retorica che negli anni ha ovattato e mistificato la limpida voce di Anne Frank e del suo Diario. Troppo spesso e troppo a lungo oggetto di interpretazioni semplificate e fuorvianti, di appropriazioni indebite, tradimenti e comode “santificazioni”, il Diario è servito da lasciapassare per un’amnesia collettiva – storica e culturale – sulle cause e le circostanze della morte della sua autrice e di milioni di altre vittime dell’Olocausto. La depravazione e la ferocia dei nazisti, il male che ha consumato la protagonista, sono stati attenuati e sorpassati nel tempo dal solo battere della critica, dell’editoria, dei lettori e persino del padre – Otto Frank – sul tema della bontà e della forza umana, utilizzando strumentalmente la voce di Anne per costruire un discorso sul passato tanto rassicurante quanto sterile. Cynthia Ozick, ripercorrendo con il ritmo e la forza che le sono propri, le vicissitudini storiche, editoriali e teatrali del libro universalmente considerato il simbolo della Shoah, ci mette in guardia dalle conseguenze di questa tendenza: ammorbidire la Storia, nel tentativo di renderla più sopportabile, equivale a tradirla; tradirla equivale a negare – in una discesa inarrestabile verso il buio della ragione – ciò che è stato, gettando le basi perché possa avvenire ancora.
Cynthia Ozick, ripercorrendo con il ritmo e la forza che le sono propri, le vicissitudini storiche, editoriali e teatrali del libro universalmente considerato il simbolo della Shoah, ci mette in guardia dalle conseguenze di questa tendenza: ammorbidire la Storia.

(Quarta di copertina) Il "Diario" è considerato una testimonianza dell'Olocausto: questo è soprattutto ciò che non è.

Cynthia Ozik

L'Autrice. Cynthia Ozick è autrice di numerose opere, sia di narrativa sia di saggistica, riconosciute a livello internazionale. Ha vinto il National Book Critics Circle Awards, ed è stata finalista al Premio Pulitzer e al Man Booker International Prize. I suoi racconti hanno vinto per quattro volte l’O. Henry First Prize. Per Feltrinelli ha pubblicato Lo scialle e Eredi di un mondo lucente (2005). Presso Bompiani sono usciti La farfalla e il semaforo (2010), Corpi estranei (2011).

«Era mio dovere allargare il piú possibile la cerchia di coloro che volevano accogliere il messaggio di Anne, e per questo il teatro e il cinema erano i mezzi piú adatti. Dopo molte riflessioni e discussioni con scrittori è stata creata l'opera teatrale. Io sono convinto che essa adempie a una missione, e questa è la cosa piú importante».

Otto Frank, padre di Anne Frank

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21 marzo 2019 4 21 /03 /marzo /2019 08:41

Un giovane nigeriano torna a casa dopo quindici anni vissuti a New York. Ma Lagos è una città immensa, pullulante di storie e di vita, un'allucinazione febbrile che si sottrae allo sguardo. Ogni giorno è per il ladro è il diario di un ritorno impossibile in cui nostalgia, amore e rabbia indicano il sentiero di una peregrinazione affascinante e inquieta.

Quarta di copertina

Teju Cole, Ogni giorno è per il ladro, Einaudi, 2014

La voce narrante di Ogni giorno è per il ladro (titolo originale: Every Day is for the Thief, nella traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi Editore - Collana I Coralli) - 2014), opera dolente di Teju Cole, è la stessa di "Città Aperta" (già pubblicato presso Einaudi).  Si tratta di uno studente di Medicina che, dopo dieci anni di assenza, fa ritorno in visita in Nigeria, nella sua città natale: e si tratta di un vero e proprio alter ego dell'autore.
Il libro si articola in 19 brevi capitoli, intensi e ciascuno corredato da una fotografia dello stesso autore.
Dopo le sebaldiane peregrinazioni per New York, Teju Cole ci accompagna in una visita nei luoghi a lui conosciuti della sua Nigeria e negli incontri con i familiari, i parenti e gli amici da tempo persi di vista.
Il suo occhio e la sua mente devono tornare ad adattarsi alle differenze, nonché al divario tra il passato ricordato e il presente vissuto, allo scarto tra memoria e realtà, e nello stesso tempo riprendere consuetudine con le bellezze e con le cose ammirevoli che, nonostante la corruzione e le disfunzioni, in Nigeria e a Lagos ci sono.
Come in Città Aperta di tratta di percorsi soggettivi, in cui i luoghi e la mente sono in costante connessione. I luoghi attivano e catalizzano i contenuti mentali e da questi incontri nascono narrazioni che rievocano il passato e attraversano il presente: come ha mostrato Sebald nella sua prosa autobiografica soggettiva non si può essere viaggiatori ed esploratori )o anche viandanti della vita) oggettivi, poichè la connessione tra la realtà osservata e lo scenario interiore che contemporaneamente si va muovendo è continuamente variabile e colui che ne vuole scrivere può soltanto registrare questi continui slittamenti tra interno ed esterno.
I racconti, capitolo per capitolo sino all'avvicinarsi del giorno temuto (ma anche atteso) della partenza e delle inevitabili separazioni, sono pervasi dalla nostalgia di un impossibile ritorno.

(Risguardo) Le città si aprono intorno a chi le attraversa come un paesaggio e si chiudono come una stanza, diceva Benjamin. Ed è cosí per il narratore di questo libro, un nigeriano che torna nel suo paese dopo quindici anni vissuti a New York. È fuggito da Lagos quasi di nascosto, per motivi misteriosi forse anche per lui: certo c’entrano la morte del padre e un risentimento mai elaborato per la madre. Ecco, rabbia e amore sono la coppia che definisce il rapporto con la sua città: una metropoli enorme, brulicante di vite e di storie in una quantità che stordisce, avamposto della modernizzazione globale e allo stesso tempo calviniana città invisibile. Il testo è accompagnato da diciannove fotografie dell’autore, diciannove immagini che fanno da controcanto ai capitoli come una storia parallela, diversa eppure puntata verso la stessa direzione: sia le parole sia le immagini, in fondo, si interrogano sugli ostacoli della visione. Lagos è una città difficile da vedere – nelle foto di Cole appare spesso sfocata, nascosta dalla griglia di un recinto, da una tenda, da un finestrino offuscato dalla pioggia, dalla ragnatela di un vetro rotto. Allo stesso tempo le parole del narratore (studente di Medicina e aspirante scrittore come il protagonista di Città aperta) sono, è vero, di una lucidità che confina con la spietatezza, ma anche segretamente fessurate dalla malinconia, dall’irrequietezza, dal rancore di chi è stato tradito. Un appannamento dello sguardo che è quello proprio dell’amore.

Hanno detto (quarta di copertina)
«Teju Cole «ci insegna a guardarci intorno e a cercare chiavi e risposte» (Goffredo Fofi, «Internazionale»)
«Cole parla del proprio tempo senza parlare del proprio tempo. Perché le domande piú grandi – quelle di cui si nutre la letteratura fondamentale – sono sempre le stesse» (Cristiano de Majo, «Rivista Studio»)
«Leggendo Teju Cole «si scopre come è fatto l’essere umano»  (Francesco Longo, «Europa»)


L'Autore. Teju Cole, scrittore, storico dell'arte e fotografo, è cresciuto in Nigeria e vive a Brooklyn. Città aperta, il suo primo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 2013, ha vinto il PEN/Hemingway Award, il New York City Book Award for Fiction e il Rosenthal Award, ed è risultato finalista al National Book Critics Circle Award, il New York Public Library Young Lions Award, e l'Ondaatje Prize della Royal Society of Literature. Inoltre, è stato giudicato uno dei migliori libri dell'anno da più di venti testate, fra le quali «The New Yorker», «The Atlantic», «The Economist», «The Daily Beast», «The New Republic», «Los Angeles Times», «Salon», «Slate», «New York magazine» e «Kirkus Reviews».

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10 marzo 2019 7 10 /03 /marzo /2019 05:20
Gino Pantaleone, Alice in Wonderland 'mPalermu, Qanat Edizioni, 2018

Ho trovato per puro caso, nella libreria che frequento di solito un piccolo volume che ha subito catturato la mia attenzione per via sia del titolo sia della bella immagine di copertina: è "Alice in Wonderland 'mPalermu", scritto da Gino Pantaleone (con illustrazioni di Monica Saladino e note di Maria Alessia Misiti), Qanat Edizioni, Palermo, 2018. L'ho letto subito, di getto, ammirandone le belle illustrazioni che lo corredano.

In questo piccolo libro un'Alice delle Meraviglie rediviva, inseguendo le tracce del Bianconiglio, si ritrova ad esplorare in un magico itinerario alcuni dei luoghi più celebrati di Palermo e così, lungo un percorso che accende in lei il senso della meraviglia, si ritrova a fare degli incontri con strani personaggi che le raccontano storie e curiosità legate ad una città come Palermo di grande fascino perché ha alle sue spalle una storia più che bimillenaria.
Si attiva così un percorso gioioso che è insieme storico, architettonico, artistico, ma finanche gastronomico nel quale, trattandosi di quella famosa Alice, alcuni incontri hanno un carattere assolutamente fantastico e surreale.
In aderenza al personaggio letterario, alcune frasi dei dialoghi sono riportate in lingua inglese (e ciò anche nel desiderio di creare un testo dagli usi molteplici in campo didattico). Ma in ogni caso si tratta di un libro godibile per tutti che rappresenta un tentativo lieve e non meramente didascalico di diffondere la conoscenza di Palermo e di attivare su questa città delle forme di story telling.
Non a caso il volume è stato pubblicato nel 2018, anno in cui Palermo è stata "capitale italiana della cultura".

Il volume è arricchito dalle belle illustrazioni di Monica Saladino, autrice anche dell'immagine di copertina, e dalla nota didattica di Maria Alessia Misiti.
Considerando la qualità del volume, è un vero peccato che la casa editrice non abbia fatto molto per divulgarlo: allo stato, infatti, non è disponibile la sua scheda, nè sul sito di Qanat, né su IBS.

L'autore. Gino Pantaleone (Palermo, 1959) è poeta e scrittore palermitano. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, Urla di dentro (1995), Io così, se volete (1997), Il vento occidentale (2007) e due saggi Non dobbiamo aver paura (2012) e Il gigante controvento – Michele Pantaleone, una vita contro la mafia (2014).

 

Retro di copertina

Retro di copertina

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28 febbraio 2019 4 28 /02 /febbraio /2019 08:57
Elie Wiesel, Il Mondo sapeva. Discorso alla Svizzera, Giuntina, 2019

A distanza di quasi vent'anni da quando fu pronunciata, viene pubblicata in un denso libricino il testo di una conferenza tenuta da Elie Wiesel nell'ottobre del 1999: è stata pubblicata in edizione bilingue (Italiano e Francese) con il titolo "Il Mondo sapeva. La Shoah e il nuovo Millennio. Discorso alla Svizzera" (trascrizione dall'originale francese e traduzione in Italiano ad opera di Sibilla Destefani, curatrice a tutti gli effetti), Giuntina (Collana Le Perline, 2019).

In questo testo, breve ma denso, è contenuta integralmente una conferenza che Elie Wiesel tenne nell'ottobre del 1999 (il 7 ottobre, per la precisione), nell'Aula Magna dell'Universittà di Friburgo. Di quel discorso, venne fatta una registrazione audio che venne custodita per quasi vent'anni da Raniero Fratini e consegnata nel 2018 a Sibilla Destefani, curatrice del volumetto che vede ora le stampa e traduttrice del testo.
Il contesto del discorso fu un convegno internazionale, organizzato dalla Federazione svizzera delle Comunità Israelitiche (FSCI), dedicato al tema della Svizzera di fronte al suo passato (è noto che la Svizzera aveva chiuso in modo totale le sue frontiere agli esuli ebrei che cercavano di sfuggire all'aggravarsi delle persecuzioni naziste).
In questa conferenza, Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, si interroga sul rapporto tra passato e futuro e sulla necessità di poter custodire e perpetuare in ogni modo la memoria del passato - per quanto dolorosa essa possa essere - per poter garantire l'esistenza di un Futuro. Senza un passato trasmesso non in maniera asettica, ma in modo vivo e palpitante, non può esserci un futuro, poiché le radici vere ed autentiche degli uomini stanno nel passato.
La questione sollevata da Elie Wiesel è di fondamentale importanza ed è di portata generale: infatti, pur avendo un suo valore specifico se riferito alla persecuzione degli Ebrei e alla Shoah, ha nello stesso tempo un valore più generale. E Auschwitz, in questo senso, non si può soltanto considerare una tragedia degli Ebrei soltanto, ma dell'intera Umanità.
Con Auschwitz (e con tutti gli altri campi di concentramento, anche se Auschwitz ne rappresenta il paradigma) venne messo in atto qualcosa di indicibile: ed è per questo che, dopo anni di silenzio e di chiusura in sé, molti dei sopravvissuti cominciarono a raccontare le loro esperienze, condensale in storie (e molti di loro, tuttavia nel loro raccontare, si fermarono alle soglie dell'orrore e degli orrori che ebbero a sperimentare, poichè a detta di alcuni loro - come ad esempio l'italiano Piero Terracina - l'orrore ultimo è indicibile).
Il raccontare fu importante, come anche da parte dei narratori che avevano vissuto in prima persona quelle terribili esperienze fu il creare un certo numero di testimoni di seconda generazione che potessero raccogliere quelle narrazioni. Questo story telling che così si perpetua non attiene ad una vicenda ormai lontana nel tempo e destinata a divenire icona di un'atrocità (anzi, vero e proprio paradigma dell'Atrocità), in quanto come afferma Piotr M.A. Cywinsky (Direttore del Museo e Memoriale di Auschwitz-Birkenau) all'esperienza dei campi non c'è e non ci sarà mai una fine (cfr. "Non c'è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz", Bollati Boringhieri, 2017) e questa esperienza occorre costantemente ripensarla e rielaborarla, adattandola ovviamente al presente, sicchè sempre più la si possa considerare un qualcosa che attiene all'Uomo universale e diventi bagaglio vivo di conoscenze e riflessioni per potere efficacemente combattere l'Orrore che costantemente può ripresentarsi con cento volti diversi.
E infatti, avverte Wiesel già consapevole di questi aspetti al tempo della conferenza, bisogna saper sfuggire alla banalizzazione della memoria e alla sua divulgazione come mero oggetto di consumo. In questo ambito, vi è anche un interrogativo pesante, al quale è difficile dare una risposta: come gestire la consapevolezza che, mentre gli Ebrei venivano sterminati, il consesso delle nazioni sapeva cosa stava accadendo? E che nessuna delle nazioni in guerra contro la Germania nazista prese dei provvedimenti per cercare di fermare l'orrore? Su questo tema si potrebbero citare molti esempi: uno, il più eclatante forse, fu quello del transatlatico tedesco Saint Louis che partito da Anversa per portare quasi 1000 Ebrei nel nuovo mondo fu costretta a fare ritorno con il suo carico umano, poiché nè Cuba, né gli Stati Uniti, né il Canada acconsentirono lo sbarco degli esuli. Guardando a questa tragica vicenda e al suo esito (degli Ebrei costretti a sbarcare di nuovo in Europa dopo la loro estenuante pregrinazione per i mari soltanto poco più di 200 sopravvissero alle persecuzioni) e paragonandola a quanto avviene oggi nel mondo, in un momento in cui i sovranismi e gli isolazionismi senza cuore e senza umanità tendono a prevalere, non si può che essere d'accordo con le parole di Elie Wiesel.
Il testo è stato suddiviso dalla curatrice in quattro parti "tematiche" per rendere più fluida la lettura e focalizzare l'attenzione del lettore.
Il titolo è stato coniato appositamente, poiché non è stato possibile risalire al titolo con cui Elie Wiesel aveva presentato , al tempo dell'organizzazione del congresso, la sua relazione.
A mio avviso, può essere molto suggestivo, leggere il testo, ascoltando in concomitanza la voce dello stesso Wiesel che parla, cosa resa possibile dal fatto che la Casa editrice ha messo a disposizione la registrazione audio del discorso originale.

(quarta di copertina) Nell’ottobre del 1999, nell’aula magna dell’Università di Friburgo, Elie Wiesel pronuncia un discorso incentrato sul rapporto tra passato e futuro dal quale emerge l’interrogativo: come fare i conti con un passato gravido di orrori come quello dell’Europa del Novecento? Che fare dei cumuli di cadaveri, dei bambini assassinati, della complicità silenziosa di chi sapeva ed è rimasto a guardare? Questo discorso di Wiesel, finora inedito, rappresenta un formidabile appello a resistere alla tentazione della violenza e alla banalizzazione della memoria. E sullo sfondo Wiesel ci pone una domanda sempre attuale: se Auschwitz non è riuscito a eliminare l’ingiustizia, cosa potrà riuscirci?
Edizione bilingue in italiano e francese.

Per ascoltarlo vai alla sheda del libro nel sito web della casa editrice

Elie Wiesel

L'Autore. Nato nel 1928 a Sighet, in Transilvania, Elie Wiesel venne deportato ad Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra ha fatto per alcuni anni il giornalista in Francia e poi si è trasferito a New York. Nel 1986 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Oggi, con la sua fondazione difende i diritti dell'uomo nel mondo, lavora per la pace e contro la povertà. Di lui la Giuntina ha pubblicato La notte, Credere o non credere , Il testamento di un poeta ebreo assassinato, Il processo di Shamgorod, L'ebreo errante, Il quinto figlio, La città della fortuna, Cinque figure bibliche e Il Golem.

 

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17 febbraio 2019 7 17 /02 /febbraio /2019 09:30

"...d'un tratto mi balenò, per così dire nella mente la rivelazione dell'unica cosa veramente comica al mondo. Questo non significa che ci siano molte cose non comiche. E che non lo sono sino in fondo, perchè tutte hanno un lato tragico. Questa invece lo è sempre, immancabilmente. E' la scorreggia. Ridi pure, se vuoi, ma così facendo mi darai solo ragione. Sì, la scorreggia é sempre buffa, non la si può mai prendere sul serio. La più dilettevole tra le umane debolezze.

Paul Auster, Notizie dall'interno, Einaudi, 2014, p. 158

Un esempio di scorreggia infuocata (dal web)

Riprendo qui una mia nota, originariamente pubblicata nel mio profilo Facebook, il 18 dicembre 2018: con qualche piccolo miglioramento rispetto all'originale.

Quella di Paul Auster, serissimo scrittore, ma con il senso dell'ironia, è un'affermazione decisamente vera, molto allineata a quella famosa frase di Montaigne che fa "Si haut que l'on soit placé on n'est jamais assis que sur son cul" che lo zio Luigi, fratello di mia madre, ai vertici della carriera militare, ma con uno spiccato senso dell'ironia, soleva spesso ripetere.

Insomma culo e scorregge sono eguali per tutti e, secondo Paul Auster, queste ultime sono, in assoluto, la cosa più buffa che è data all'uomo di produrre.

E sul fatto che, in generale, di fronte ad una scorreggia o - per meglio dire - investiti da essa acusticamente e/o olfattivamente, tenendo conto dell'esistenza dei peti silenziosi), non si può che ridere, nemmeno su questo ci piove. Ancora di più quando si è nei panni del "subdolo artigliere" (ovverossia colui che produce scorregge non rumorose, ma estremamente puzzolenti), al centro di un nobile - ed ignaro - consesso. E sull'intrinseca comicità delle scorregge e dei riti messi in atto dallo scorreggiatore esplicito, ognuno avrebbe molti divertenti episodi da citare. Come il caso di uno che, nel bel mezzo di riunioni salottiere in cui si bivaccava sino a tarda ora, ogni qualvolta avesse pronta una scorreggia da liberare si alzava in piedi (effetto amplificato dalla sua imponente statura) e puntando il dito al cielo emetteva un peto sonoro e prolungato e talvolta la sua performance era seguita da scroscianti risate, mentre in altri casi cadeva nell'indifferenza generale, quasi fosse un evento normale, come un brontolio di tuono fuori dalla finestra, che non è considerato tale da interferire con le umane attività: e queste sono state una mie osservazioni personali.

Ma che dire delle scorregge che "uccidono"?. Come nel caso della notizia (bufala o no che sia): "Credeva che fosse una scorreggia ed é morto asfissiato".

Oppure cosa dire delle scorreggie "infuocate" che sono una dimostrazione tangibile del loro mefitico potere? Per intendere quelle che incendiate dallo scorreggiatore medesimo mediante la fiamma di un accendino all'atto dell'emissione, si trasformano in palle e gettiti di fuoco, impressionanti effetti pirotecnici, per quanto effimeri?

Insomma ci sono scorregge e scorregge ed io, personalmente, non riderei mai della scorreggia sganciata da un aguzzino che si accinge a torturarmi con strumenti medievali. Non la prenderei mai come un qualcosa che allegerisce la tensione del momento con una risata liberatoria.

Ma, a parte questo caso drammatico (e, forse, non realizzabile, poichè di norma gli aguzzini hanno uno scarsissimo, se non assente, senso dell'ironia e si pigliano molto sul serio), Paul Auster ha ragione, penso...

"Ed ei avea del cul fatta trombetta": e tutta la cupa rappresentazione dell'Inferno dantesco non ci ha esentato dal ridere di grasse risate, quando ci siamo imbattuti in questo verso. Non soprenderà riconoscere che, al tempo in cui Paul Auster, scrisse la fraae citata, egli studiava Letteratura alla Columbia University di New York e che aveva da poco letto l'Inferno di Dante.

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3 febbraio 2019 7 03 /02 /febbraio /2019 10:17
James Sallis, La Falena, Giano, 2005

James Sallis è uno scrittore black american, nato in uno stato del Sud dove ha vissuto per gran parte della vita (pur con una lunga parentesi europea). E' un personaggio eclettico e versatile, sia nella vita, sia nella scrittura. Ha insegnato letteratura in un'Università del Sud, ha fatto il traduttore e il curatore, ha scritto saggi rilevanti e si è dedicato, tra le molte cose alla narrativa fiction e poliziesca. Tra le sue molte prove narrative vi è la serie che ha come protagonista l'investigatore nero Lewis (Lew) Griffin che è, in sostanza, un alter-ego dell'autore. Infatti, Griffin è un investigatore privato molto sui generis che inserisce questa attività in quella più costante di docente di letteratura universitario e di scrittore, avendo tuttavia un passato tormentato e vario: è stato bodyguard, infatti, prima di una caduta a capofitto nell'alcoolismo, sino a toccare il fondo per poi rimergerne, ma senza una totale astensione, poichè - occasionalmente - non disdegna di fare ritorno all'alcool inteso come scacciapensieri e relax sociale. Ha anche avuto alcune storie sentimentali, per alcune delle quali ha dei rimpianti. Nella sua attività di investigazione è sagace ma anche irruento, nel senso che a volte perde il lume e manda tutti all'ospedale.
Ne "La Falena" (Titolo originale: Moth, nella traduzione di Luca Conti), pubblicato da Giano Editore, (Collana NeroGiano, 2005) il compito che si è assunto è quello di ritrovare la figlia di una sua vecchia fiamma, una donna a cui non ha mai voluto dichiarare il suo amore e che poi ha perso. Questa ricerca ha inizio dopo la sua morte, per assolvere ad una promessa fatta, ma anche spinto dal peso in lui della scomparsa - anni prima - di un figlio. E nel cercare Alouette, invischiata in una storia di tossicodipendenza e probabilmente alla deriva, si imbatte nella figlia di lei, nata prematura a causa dell'abuso in gravidanza di sostanze psicoattiva da parte della madre: una "crack baby", a forte rischio di non sopravvivenza..
Troverà alla fine Alouette, ma senza poterla salvare sino in fondo. Ma ci ha provato.
E' un romanzo che si svolge nel profondo sud degli States, tra Louisiana e Arkansas e una buona parte della vicenda è on the road, intessuta di incontri e di storie.
Lew Griffin è un personaggio che vive intensamente, ma è nello stesso tempo immerso nella nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere e non è mai stato per via della sua incapacità di dichiarare le cose e gli stati d'animo sino in fondo: una vita che non conosce trionfalismi, ma solo cose riuscite a metà, tali da lasciare bei ricordi, ma anche un bruciante senso di nostalgia per via della loro incompiutezza.
Mi è piaciuto: e una volta presa la necessaria confidenza con un investigatore così bizzarro e atipico, non ho potuto più lasciarne la lettura sino alla fine.

(risguardo di copertina) Baby Girl McTell. Nata: 15 settembre. Peso: 600 grammi. Madre: Alouette. Sono i dati della crack baby che Lew Griffin ha rintracciato in un ospedale di Clarksville, nel profondo Sud. Potevo reggerla nel palmo della mano senza problemi. Ci è arrivato cercando Alouette, la figlia che LaVerne voleva rivedere e che Lew si è impegnato a ritrovare. Per pagare almeno in parte il debito con la donna degli anni difficili, l'amore di una vita. Morta, quando sembrava salva. E così Griffin è di nuovo in strada, col cuore pesante e il diavolo alle calcagna. E Griffin dovrà scendere ancora di più nell'inferno del passato, per affrontare i propri demoni e la violenza che esplode in lui, mentre cerca di afferrare il fantasma di Alouette e della propria esistenza.

James Sallis

L'Autore. James Sallis è nato a Helena, Arkansas, nel 1944, e qui ha studiato. Romanziere e musicista, saggista e poeta, biografo e traduttore dal francese e dal russo (Queneau, Cendrars, Lermontov, Pasternak), ha scritto numerosi romanzi, quattro raccolte di poesie e una biografia di Chester Himes. Con Giano ha pubblicato Il bosco morto (2008), oltre a La Falena.
Ha vissuto a lungo a Londra e in varie parti d'America, prima di stabilirsi a Phoenix, in Arizona.
Agli inizi degli anni Novanta ha inaugurato una serie di sei romanzi noir dedicati all'investigatore privato Lew Griffin, grazie al quale ha ottenuto grande notorietà.
Nel 2003 ha dato il via a una nuova serie di libri con protagonista John Turner, ex agente di polizia con un passato da carcerato.
Dal suo romanzo "Drive" il regista Nicolas Winding Refn ha tratto un film interpretato da Ryan Gosling. I libri di James Sallis sono pubblicati in Italia da Giano/Neri Pozza, e sono tutti tradotti da Luca Conti.

 

 

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26 gennaio 2019 6 26 /01 /gennaio /2019 10:37

I libri mi conoscono meglio di chiunque altro.
Mi fido solo di loro.
Perché sanno sempre darmi le risposte che cerco.

Citazione dal testo (in copertina)

Stephanie Butland, La libreria dove tutto è possibile, Garzanti 2018

Sempre più spesso, negli ultimi anni, capita di imbattersi in libri siano essi di saggistica, diaristica o di narrativa in senso stretto, in cui è posta al centro dell'attenzione la relazione con i libri, oppure una riflessione sull'avere libri o sul comprarli, in una gamma di sfaccettature che vanno  dall'interesse per il contenuto in sé dei libri alla più pura passione bibliofilica. In un'epoca in cui il libro tradizionale (quello cartaceo, per intenderci) è tenuto sotto assedio dall'editoria kindle e in cui le piccole librerie indipendenti sono messo sotto scopa dal mercato librario online sempre più invadente ed aggressivo, questo trend è sintomatico di un tentavo di valorizzare e di riportare in auge il più autentico e puro amore per i libri, in cui si mescola inscindibilmente il piacere di scoprire contenuti sempre nuovi con tutto ciò che di sensoriale attiene al rapporto con l'oggetto-libro. Noi, accaniti lettori dobbiamo essere sicuramente grati a questi scrittori che ci conducono per mano in un territorio di riflessioni sul libro come oggetto mentale e come oggetto su cui polarizzare la propria libdo in senso lato.
"Un libro è come un fiammifero nell'attimo fumante tra lo strofinamento e la fiamma" (p. 11)
"Una libreria non è magica, ma a poco a poco può guarire il tuo cuore" (p. 309)
Tra queste due frasi è racchiusa l'intesa storia di crescita e di formazione della protagonista di "La Libreria dove tutto è possibile" di Stephanie Butland (titolo originale: Lost for Words, nella traduzione di Elisabetta Valdré, Garzanti editore - Collana Narratori Moderni - 2018).
Loveday Cardew lavora in una libreria di York che tratta soprattutto libri usati, ama profondamente i libri e la lettura, ma anche - privatamente - scrive delle poesie.
Loveday piuttosto vive chiusa in se stessa, essendo sostanzialmente diffidente nei confronti del prossimo e degli uomini, pur circondata dai libri che raccontano di vite altrui e di sentimenti.
Per questo motivo, la nostra eroina rifugge dal coinvolgimento in relazioni di lunga durata, poiché teme di imbattersi in sgradite sorprese.
I libri in mezzo ai quali Loveday vive sono il suo mondo e la sua fortezza.
Ama i libri a tal punto che, di quando in quando, decide di farsi tatuare sulla pelle gli incipit di quelli che, per lei,sono stati più significativi e che le hanno impartito delle lezioni di vita.
I libri per per Loveday non sono soltanto fidati amici, ma anche maestri e guida, anche se, in alcuni casi, possono riservare delle sorprese e condurre il lettore in luoghi della mente dove non si vorrebbe mai andare, per mantenere una rispettosa distanza distanza da tutto ciò che, nella vita, ci ha traumatizzato.
In questa esistenza blindata, tuttavia, cominciano a succedere delle cose che generano inquietudine, ma che, nello stesso tempo, spingono Loveday a ridurre il livello di guardia, ad attenuare le diffidenze e ad intraprendere cautamente nuove relazioni.
Da un lato resterà traumatizzata nuovamente, ma nello stesso tempo conoscerà Nathan, gentile e premuroso, e poeta. E con lui comincia a frequentare dei reading poetici, venendo anche allo scoperto con alcune delle sue composizioni.
Per via di queste circostanze Loveday si trova a dover attivare un confronto serrato con il suo passato e con i suoi fantasmi: solo quando sarà venuta a termini con questo fardello ingombrante (in parte rimosso), Lovejoy potrà finalmente intraprendere un suo percorso davvero creativo.
"Lost for Words" è una bellissima storia sui libri e sulla lettura, ma anche un esempio davvero intenso sul modo in cui, a volte, i libri possano davvero salvare la vita.
Le ambientazioni tra York e Whitby (luogo legato all'infanzia di Loveday) sono davvero affascinanti.
Il volume, nell'edizione italiana, è completato dal testo di una conversazione con l'autrice.

 

(quarta di copertina) "Stavo riflettendo sull’eventualità di un tatuaggio musicale, ma gli incipit dei libri sono tutt’altra faccenda. Non provo rammarico per nessuno dei miei, neppure per Jane Eyre o I bambini della ferrovia che mi sono fatta tatuare sulle scapole. Adesso il primo, Anna Karenina, sembra prevedibile. Ma quando avevo diciassette anni e avevo appena scoperto la letteratura russa, mi sembrava che Tolstoj parlasse alla mia anima".


(risguardo) Nel cuore di York, nel Nord dell’Inghilterra, c’è una piccola e fornitissima libreria. È il rifugio preferito della giovane Loveday Cardew. L’unico luogo che sia mai riuscita a chiamare casa. Solo qui si sente al sicuro. Solo qui può prendersi cura dei libri proprio come i libri si prendono cura di lei. Perché è attraverso le loro pagine che la giovane libraia riesce a comunicare le emozioni e i sentimenti più profondi: la solitudine di Anna Karenina; la gioia di vivere di La fiera della vanità; le passioni travolgenti di Cime tempestose.
Fino al giorno in cui comincia a ricevere misteriosi pacchi ricolmi dei libri con cui è cresciuta, e inizia a pensare che qualcuno stia cercando di mandarle un messaggio. Qualcuno che, forse, la conosce bene e che conosce anche la sua infanzia, divisa tra una madre assente e una donna che ha cercato di esserne il sostituto. Un’infanzia piena di ricordi difficili. Loveday non ha la minima idea di chi possa essere e del motivo per cui il misterioso mittente si ostini a non lasciarla in pace. Sa solo che non può più continaure a nascondersi e a fare finta di niente: se vuole costruirsi un futuro diverso, migliore, deve affrontare il passato che ha fatto di tutto per lasciarsi alle spalle. Al suo fianco, pronto ad aiutarla a raccogliere tutto il coraggio di cui ha bisogno, c’è il brillante e dolcissimo Nathan, poeta in erba, l’unico che sembra conoscere la strada per arrivare al suo cuore. A poco a poco, con i suoi versi pieni di speranza, riesce a scalfire il guscio che Loveday si è costruita intorno e a regalarle la promessa di una felicità che lei, in fondo, non vede l’ora di afferrare. La libreria dove tutto è possibile è un esordio brillante e originale che ha saputo conquistare il cuore dei librai di tutto il mondo. Nessun’altro romanzo è riuscito a dipingere in modo altrettanto emozionante e delicato la realtà quotidiana di una libreria e la passione di un libraio che, da custode della letteratura, ne fa dono a piccoli e grandi lettori. Perché la libreria è il luogo giusto per trovare la risposta a tutte le nostre domande: basta saper ascoltare e fidarsi di quello che i libri hanno da raccontarci.

Stephanie Butland

L'autrice. Stephanie Butland vive con la famiglia in Northumberland.
Quando non è impegnata a scrivere nel suo piccolo studio sulla riva del mare, cerca di stimolare le persone a pensare con maggiore creatività.
Ha scritto un libro in cui racconta la sua esperienza di paziente con il cancro al seno che ha vinto la sua battaglia con la malattia (Come ho sconfitto il cancro. Una storia vera, Newton Compton, 2012)

 

"Una lettura irrinunciabile. Loveday è un personaggio affascinante e sfaccettato che non dimenticherete tanto facilmente"

Daily Mail (appraisal in quarta di copertina)

Aprendo il file allegato si possono leggere le prime pagine

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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