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12 giugno 2011 7 12 /06 /giugno /2011 09:17

baldo.jpgI cani, come sa chiunque li abbia frequentati, ci guardano, sempre intenti e seri e, a volte, adoranti.

Ci guardano di continuo. E soprattutto ci guardano se siamo i loro "padroni", non tanto nel senso del loro possesso, quanto piuttosto nella relazione di donazione di sé e di dipendenza d'elezione che ciascun cane domestico realizza nei confronti di un'unica persona che riconosce come una sorta di "dio-padrone".

Quello sguardo ci segue di continuo e non si stacca mai da noi: in nessuna relazione umana accade qualcosa di paragonabile, perchè ci sono sempre dei momenti di solitudine e di distanziamento dai nostri simili.

Se abbiamo un cane, invece, lui o lei non ci perdono mai d'occhio (o di naso) e anche quando sembra che stiano dormendo, sono sempre orientati verso ciò che facciamo: se ci alziamo per andare in un'altra stanza ci seguono, se carpiamo un momento di loro disattenzione e ci nascondiamo alla loro vista vengono subito a cercarci, utilizzando l'olfatto per mettersi sulle nostre tracce e, quando ci hanno ritrovato, scondizolano e ci leccano felici la mano.

Questo sguardo porta coloro che hanno la consuetudine domestica della vita condivisa con uno o più cani sono portati a ritenere che, dietro quello sguardo, ci siano degli affetti profondi e duraturi (Jeffrey Moussayef Masson, ex-psiconalista e convertito alla causa animalista lo ritiene e di ciò fanno fede numerosi libri da lui scritti sull'affettivativa di cani ed altri animali, tra i quali possimo citare "I cani non mentono sull'amore" per i tipi di Baldini e Castoldi) e forse anche dei pensieri, non come i nostri, ma dei pensieri sì, probabilmente, forse anche memoria: nessuno potrà mai saperlo, però, proprio perchè i cani non parlano.

Su questo assunto si basa il bel racconto di Franco Marcoaldi, Baldo. I cani ci guardano (Einaudi, 2011).

Qui, è il cane Baldo (un bel setter irlandese) ormai giunto alla rispettabile età di 11 anni a raccontare di sé e del rapporto con Uomo e Donna che, quando era in tenera età, lo hanno adottato portandolo con sé. Uomo diventerà rapidamente Dio-Padrone, mentre Donna rimarrà sempre Donna: Baldo come ogni cane riconosce un unico Dio-padrone.

Baldo, ormai malinconicamente al declino della sua vita, ripercorre tutte le tappe essenziali della sua vita, dall'adozione alle prime fasi della convivenza con gli Umani, alle disavventure giovanili scaturenti da un eccesso di intraprendenza, alla maturità, all'introduzione della compagna Nina e dell'arrivo di un figlio, Pozzo, ma anche del gatto Campa (Campanello).

Baldo ci dà la misura di una vita che si consuma tra autonomia e dipendenza, in una relazione che è sempre forgaita dal desiderio della condivisione di ogni cosa con il proprio Dio-Padrone, ma è inevitabile che egli faccia delle riflessioni del senso della sua vita e di quella degli umani che lo circando, manifestando in ciò una profonda saggezza, soprattutto mentre rievocando il suo passato si fa acuta la consapevolezza che non ne avrà ancora per molto.

Marco Marcoaldi, poeta e scrittore (già autore di un bel libro di poesie ispirate agli animali, Animali in versi per Einaudi), spinto dalla sua passione pe gli animali, ripercorre nello scrivere questo libricino, la strada già calcata da altri scrittori che hanno già raccontato o in forma narrativa o in forma diaristica del proprio cane e della propria passione per i cani in generale: come ad esempio Alberto Asor Rosa (Storie di animali ed altri viventi), Paul Auster (con il suo struggente Timbuctù) o Emanuele Trevi (con il suo I cani del nulla). In questo senso rende omaggio a chi l'ha preceduto, arricchendo la sua opera con una piccola preziosa bibliografia.



Sintesi del volume (dal risguardo di copertina)

Baldo è un cane tra gli altri, che attende il suo padrone. Ed ecco che in una frizzante mattina di settembre arrivano Uomo e Donna. E lo scelgono. E una scelta affidata al caso, frettolosa e superficiale, eppure in ballo c'è un'intera vita da trascorrere insieme. Così Baldo inizia a fare esperienza del mondo umano, pieno di ossessioni e di meccanismi astrusi e lambiccati. Poco alla volta comprende che gli uomini sono prigionieri di catene invisibili che li riportano sempre al punto di partenza. La dimensione da cui ci osserva, con occhio ironico e compassionevole, è quella di un presente assoluto, dei piccoli gesti che si ripetono, delle meravigliose scoperte legate alla semplicità dei sensi. Ma nella naturale accettazione del mondo per come è si nascondono considerazioni venate di profonda e involontaria saggezza che Baldo suggerisce al padrone, Uomo, invitandolo a disfarsi degli inutili fantasmi che accompagnano le sue giornate. Col passare degli anni, la speciale sintonia che li unisce produce un desiderio di sconfinamento l'uno nell'altro, un rapporto privilegiato, fatto di silenzi e dialoghi che si affidano all'ambiguo "gioco degli occhi", e che si realizza in uno spazio nuovo, a mezza via: quello della "felice confusione tra specie diverse".

 

 

 

 

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11 giugno 2011 6 11 /06 /giugno /2011 08:05

Mompracem , l'isola che c'eraNell'ambito delle celebrazioni dedicate a Emilio Salgari 2011-2012 è recentissima la pubblicazione del volume  “La riconquista di Mompracem, l'isola che c'era" di Fabio Negro (Simple Edizioni, Macerata), con saggi di Corinne D'Angelo, Felice Pozzo e Rosa Di Gioia e un'introduzione di Folco Quilici. Il volume, di 220 pagine, contiene numerose illustrazioni b/n e a colori

Nel 1883, un piccolo punto sulla carta geografica del Borneo ispirò ad Emilio Salgari le avventure del suo più celebre personaggio: Sandokan, la Tigre della Malesia. Quel piccolo punto era l’isola di Mompracem, covo di formidabili pirati, oggi scomparsa dalle mappe.

Ma un gruppo di studiosi del progetto “Per Terra e Per Mare”, ha fatto del sogno una realtà e l’isola di Mompracem è di nuovo sui nostri mappamondi. Attraverso un’indagine storica, geografica, nautica e sociologica, scopriremo il mondo meraviglioso di questo autentico “mito letterario”.

Un viaggio di carta, come quelli immaginati dal Capitano Salgari, per scoprire che Mompracem non è più un luogo immaginario, ma è esistita davvero!

Per anni si è creduto che l’isola di Sandokan fosse inesistente. O peggio, riconosciuta in un’entità attuale per mero interesse commerciale a tutto vantaggio di tour operator e agenzie di viaggio che ancora propinano vacanze salgariane sulla “nuova Mompracem”, che non è mai stata tale.

Questo saggio, che - non a caso -  esce nel pieno delle celebrazioni per il centenario della morte di Salgari (2011) e per il centocinquantesimo anniversario della sua nascita (2012), restituisce alla memoria geografica e storica, la verità su questa leggenda.

 

Per terre e per mare 

 

Corinne D'Angelo: www.emiliosalgari.it

Per terre e per mare: www.perterraepermare.it

 Il blog del libro: http://lariconquistadimompracem.weebly.com

L'autore: f.negro.nautili@alice.it

Contatti: redazione@emiliosalgari.it

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9 giugno 2011 4 09 /06 /giugno /2011 11:22

camicia-rossa.jpgIn Camicia Rossa (Corraini, 2011), l’impresa eroica di Giuseppe Garibaldi, disegnata da Federico Maggioni, si popola di manipoli di ultràs sportivi, locandine pubblicitarie dell’unificazione e altre rivisitazioni originali: i famosi discorsi di Garibaldi si trasformano in vinili da collezione, la sua camicia rossa in un capo di alta moda, la bandiera italiana ispira sneakers e cornflakes "made in Italy"...

 

Con fantasia e ironia, la vita di Garibaldi – il suo matrimonio, il ferimento in Aspromonte, l’impresa dei 1000 – sono raccontate in una fantasiosa carrellata di pubblicità e oggettistica commemorativa.

 

Questo libro è un omaggio in chiave fantastica e spiritosa all’impresa di Garibaldi per unificare il nostro Paese: un libro per celebrare con fantasia e ironia, in occasione dell’importante ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia, la nostra storia e la nostra bandiera: "bianco come il gelato di limone, verde come la granita di menta, rosso come la marmellata di lamponi".

Un libro per i piccini, ma per la sua grafica raffinata, per la fantasia e l'ironia di cui è veicolo anche per piccini che vivono dentro gli adulti.

"Camicia Rossa" è il nuovo titolo della collana "22" della Casa Editrice Corraini.

 

 

Prendendo le mosse dalla storica collana "Tantibambini", diretta da Bruno Munari per Einaudi dal 1972 al 1978, la collana "22" è un progetto editoriale dedicato ai libri per bambini, aperto alla ricerca e alla sperimentazione, che accomuna volumi di maestri storici come Bruno Munari, Pino Tovaglia e Giancarlo Iliprandi, autori affermati come Federico Maggioni, Davide Longo e Chiara Carrer e giovani illustratori di talento come Katrin Stangl, Oscar Bolton Green e Joanna Neborsky.

 

Federico Maggioni, Illustratore e concept designer, vive e lavora a Milano. Ha illustrato libri per le maggiori case editrici italiane, con molte delle quali continua a collaborare. Le sue tavole sono apparse su periodici e quotidiani nazionali ed è stato consulente per l’immagine editoriale per Ipsoa, Sole 24 ORE Libri, Pirola, Mythos Arké. Tra le sue opere più recenti "Cuore" e "Regolamento del giuoco del calcio" per le Edizioni Corraini e "I Promessi Sposi" per la Casa Editrice Piemme.

Numerose sono le sue mostre personali e collettive. Ha vinto i più prestigiosi premi per l’illustrazione e organizza corsi e laboratori di comunicazione visiva.

Per il Festivaletteratura di Mantova ha realizzato i laboratori: "La scenografia dello sguardo" e "Mummie pazze".

 

Il sito web della casa editrice Corraini 

 

 

 

 

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6 giugno 2011 1 06 /06 /giugno /2011 11:52

Lafine_Scibona.jpgIeri (il 5 giugno 2011), mi è capitato di ascoltare in radio (Radio Capital) un progamma di recensioni letterarie in cui si parlava del romanzo dell'americano statunitense Salvatore Scibona (La fine), programma che si fondava anche su di un'intervista realizzata direttamente con l'autore, tra l'altro capace di esprimersi correttamente in italiano. Ho trovato la presentazione del romanzo estremamente interessante e sono andato a documentarmi. 

Ecco il risultato della mia ricerca.



Ne La fine di Salvatore Scibona, americano e discendente proprio da quegli immigrati italiani che in parte fecero l'America (pubblicato da 66th and the secon, collana Bazar), viene raccontata- nel cuore immaginario del Cleveland - una storia di immigrati italiani: una storia di decisioni determinate e determinanti che tingono di nero le vite grigie dei personaggi.

 

È un romanzo che viaggia sui binari temporali di una sola giornata, quella del 15 agosto del 1953. È la festa dell'Assunta a Elephant Park e, come ogni anno, il quartiere si trasforma in un carnevale di venditori ambulanti, gente di ogni colore, infinite varietà di cibo, mirabolanti giostre per bambini. Tra la folla svettano i portatori della Vergine con le loro tonache immacolate, che contrastano con la pelle scura della statua di Maria. L'aria della sera estiva porta in sé il sentore di un presagio, e per una volta tutto sarà diverso. Una vedova abortista, un adolescente introverso, un'enigmatica sartina, un marito abbandonato, un gioielliere che colleziona lettere di confederati e Rocco, il panettiere. Individui ordinari, trascurabili perfino, ma resi indimenticabili dalla loro fede incrollabile nella ricerca del proprio compimento, nel realizzare quel determinato atto, quel particolare progetto, con l'idea che al termine del percorso sia possibile trovare la fine di tutto. Salvatore Scibona tesse una serrata trama di eventi, costellata di indizi nascosti, ambientata negli anni Cinquanta tra gli immigrati della comunità italoamericana di Cleveland, Ohio, e segnata da un crimine mai svelato che informa le vite dei protagonisti. Un'opera prima che sfiora, con garbo e capacità di introspezione, i grandi temi della vita attraverso i pensieri e le riflessioni dei suoi personaggi, facendo scivolare il lettore nel puro piacere di un'avida lettura.

La fine narra le vicende dei suoi, dei nostri, emigrati come uno specchio impolverato svela in profondità ciò che siamo.

In quello specchio, oltre a vedere noi stessi, cogliamo i volti, le espressioni, i tratti delle generazioni che ci hanno preceduto. Salvatore Scibona racconta una storia che attraversa l’Italia da nord a Sud e s’insinua tra le vie di paesi e province, e poi su, in qualche stanza abbandonata per cercar fortuna altrove. Ci ricorda il nostro passato di migranti, mai davvero concluso e già dimenticato.  Saranno state le origini italiane, e in particolare siciliane, ad aver spinto l’autore in una narrazione tanto articolata, che si chiude tuttavia come un cerchio verso il principio di tutte le storie: la vita.

scibona.jpgNato a Cleveland, Ohio, Salvatore Scibona ha solo trentacinque anni e da quando ne aveva dieci ha deciso che nella vita avrebbe fatto lo scrittore.

È diventato il caso letterario degli States e ora è pronto a conquistare l’Italia. Con il suo romanzo d’esordio, La fine, edito da 66th and 2nd in lingua italiana, l’autore ha vinto nel 2009 il Young Lions Fiction Award e il Whiting Writers Award, l’anno prima è stato finalista del National Book Award.

Non solo: è stato selezionato tra i 20 più grandi autori di lingua inglese sotto i 40 anni d’età dal «New Yorker».

Docente nella scuola di scrittura Fine Arts Work Center di Provincetown nel Massachusetts, Scibona (il cui nome si pronuncia, in realtà, "Skibona") ha studiato scrittura creativa con Marilynne Robinson all’Iowa Writers’ Workshop. E proprio una scuola di scrittura lo ha ospitato lo scorso 19 maggio, a Roma. La LUISS Writing School – il master di Scrittura Creativa della LUISS "Guido Carli" – ha organizzato una lecture con l’autore, dal titolo Italia-America solo andata, in occasione della presentazione del libro. L’evento, realizzato dagli allievi della scuola, si è tenuto alle ore 11 nella sede di viale Pola della LUISS.

Insieme all’autore, è intervenuto Alberto Castelvecchi.

L'autore - questa è la cosa rimarchevole e curiosa, al tempo stesso - ha realizzato la sua opera scrivendola interamente a mano, attraverso una serie di riscritture successive che hanno conferito alla sua prosa la qualità di un pregevole distillato.

 

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16 maggio 2011 1 16 /05 /maggio /2011 09:48

starr2.jpgPiccoli delitti del cazzo (di Jason Starr, Meridiano Zero) è un noir che per alcuni versi vira nel grottesco e nella commedia nera. Fake I.D., questo il titolo originale del romanzo (inizialmente uscito in Europa solo in Gran Bretagna e in Germania) è una strepitosa tragi-commedia nera in cui si ride a denti stretti, un meccanismo a orologeria che rotola a velocità supersonica verso l’inesorabile conclusione.

Tommy Russo è il protagonista di una storia fatta di scelte progressivamente sempre più perdenti: scelte idiote e demenziale, perchè non guidate da un fermo giudizio e orientate semplicemente dal bisogno di reperire soldi facili da bruciare immediatamente nelle scommesse con i cavalli.

Tommy Russo è un perdente di prima qualità, sopraffino. Aspirante attore che non riesce a trovare un ingaggio nemmeno per uno spot pubblicitario, sbarca il lunario lavorando in un pub newyorkese come buttafuori e intanto sperpera i pochi soldi che riesce a racimolare giocando alle scommesse e non disdegnando altre forme di gioco d'azzardo. E' preso dal demone del gioco: i soldi gli bruciano nelle sue tasche e chiedono di essere giocati. Non possono mai risiedervi nemmeno per mezza giornata.

Come tutti i giocatori d'azzardo, in cui le perdite sopravanzano sempre le vincite, Tommy Russo è alla perenne ricerca di denaro, ma è altrettanto pronto a lasciarsi abbindolare in proposte che gli consentano di fare il "salto di qualità" come scommettitore (come per esempio quella di acquistare in società con altri un cavallo da corsa).

 Il bisogno di denaro lo porta a fare scelte avventate, guidato da un'analisi critica superficiale dei fatti e dall'idea onnipotente (tipica del giocatore d'azzardo patologico) di potere sempre riuscire a sbarcare il lunario e a trovare nuovo denaro "fresco".

Così procedendo, si mette in guai sempre più grossi, man mano che cerca di eliminare - con atti, a senso suo, correttivi - gli effetti deleteri di altre azioni deprecabili da lui compiute. Ma si tratta sempre di scelte fatte con la iper-lucidità fallace del cocainomane o comunque dell'individuo sotto l'azione della scarica dopaminergica tipica del meccanismo della dipendenza (sia essa su base farmacologica o no).

Nel percorso di Tommy, in cui la costruzione d'una montagna di bugie dalle più credibili alle più fantasiose è all'ordine del giorno, viene bene illustrato lo sfaldarsi progressivo del suo senso morale (non è che ce ne fosse molto all'inizio della vicenda!), sino alla sua completa estinzione.

Inutile dire che Tommy Russo non la farà franca e finirà con il naufragare, sepolto dal suo stesso cinismo e dalla sua immoralità.

Le sue "avventure" gorttesche che si vanno tingendo sempre più di nero, man mano che si dipanano verso la sua rovina, si leggono tutte d'un fiato.

Il romanzo è anche interessante, perchè - meglio di approfonditi trattati -  aiuta a comprendere ciò che passa nella testa di un giocatore d'azzardo patologico e quali meccanismi mentali lo dominano.

 

Sintesi del romanzo (dal sito di Meridiano Zero)

Quando Tommy Russo, attore trentaduenne con il vizio del gioco, incontra nel parcheggio di un ippodromo newyorkese il maleodorante Pete, comprende che la buona sorte non si può attendere, ma va in qualche modo provocata. Pete gli offre di entrare in società per l’acquisto di un cavallo da corsa, e per Tommy si presenta l’occasione di lasciarsi alle spalle le delusioni di un mondo che non riconosce il suo talento artistico.

D’altronde, dopo l’ennesimo provino fallito, questa volta per una pubblicità di mangime per cani, sa di aver superato quel limite che separa il giovane di belle speranze dalla promessa mancata.

Ma come procurarsi in pochi giorni i diecimila dollari necessari, lavorando come buttafuori in un bar dell’Upper East Side? Dipende da cosa siete disposti a fare, pur di abbandonare l’universo dei perdenti e fare il vostro ingresso nella high class di Manhattan.

Attratto in modo inesorabile da un’umanità che sogna i soldi e il successo, le feste e le corse di cavalli, Tommy decide di sfruttare il suo aspetto affascinante e le sue abilità di attore, e finisce risucchiato in una girandola di menzogne, colpi di fortuna e cattiverie inattese, che lo spingono a percorrere a grandi passi la scala delle abiezioni, fino a varcare con una leggerezza e superficialità disarmanti la soglia del delitto.

Nel suo nuovo romanzo, Jason Starr mette in scena una commedia della falsità, cinica e spiazzante, in cui gli scherzi del caso trascinano a ritmo vertiginoso il protagonista, una sorta di American Psycho versione pop, incontro a tentazioni capaci di prevalere su qualsiasi morale e istinto sociale.

E se la spregiudicatezza sembra la via più sicura per arrivare al successo, il libro finisce per insinuarci un dubbio sottile: siamo proprio certi, in fondo, che il delitto non paga?

  

Nota bio-bibliografica sull'autore

starr.jpgJason Starr è nato nel 1966 a New York, dove vive attualmente con la moglie e la figlia.

Scansata una laurea in economia all’università di Binghamton, si è dedicato completamente alla scrittura. Autore di sceneggiature teatrali, ha scritto per diverse compagnie Off-Off Broadway. Affascinato da Jim Thompson, Elmore Leonard e Cornell Woolrich, si è ispirato alla vecchia scuola degli autori noir, esordendo nella narrativa con Chiamate a freddo (Meridiano zero, 1999), acclamato da Publishers Weekly come un romanzo "nella grande tradizione di James Cain". I suoi libri sono tradotti in sei lingue. In Italiano, sempre da Meridiano Zero, sono stati pubblicati Chiamate a freddo, Niente di personale e Cattivi pensieri a Manhattan.

Per usare un giro di frase molto popolare nel giornalismo USA di parecchi anni fa - Jason Starr "...è la cosa migliore che potesse capitare al noir dai tempi di Jim Thompson".

Trentasei anni, newyorkese purosangue, nello spazio di cinque romanzi Starr si è inserito a buon diritto nella grande tradizione dei maestri del noir americano degli scorsi decenni: James Cain, Charles Willeford, George V. Higgins, Elmore Leonard, il già citato Jim Thompson. E di questi maestri Starr è oggi l’erede più qualificato, uno dei pochi giovani autori di noir ad essere riuscito nella difficile impresa di coniugare temi e situazioni tipici dei tardi anni Novanta con un’asciuttezza di scrittura e un’economia di mezzi che discendono direttamente dell’età d’oro dell’hard boiled americano.

Non fosse per la sua orgogliosa rivendicazione di appartenenza al genere poliziesco, che Starr semina allegramente sia a voce, sia nelle pagine dei suoi romanzi, è probabile che da tempo i suoi libri avrebbero goduto di una ben più vasta considerazione di critica e di pubblico. D’altra parte, la relativa oscurità in cui ha operato fino a oggi ha consentito a Starr di sviluppare una cifra stilistica assolutamente originale, al riparo dalle tentazioni e dalle pressioni dell’industria editoriale, ma sostenuto da un piccolo, affezionato e sempre crescente nucleo di lettori fedeli.  

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11 maggio 2011 3 11 /05 /maggio /2011 08:02

Il-libro-di-Renfield.jpgIl libro di Renfield, dal sottotitolo “La vera storia del discepolo di Dracula” (in inglese, The book of Renfield: a Gospel of Dracula) di Tim Lucas, affermato critico cinematografico statunitense, arricchisce indubbiamente il catalogo della casa editrice Gargoyle e offre agli appassionati delle infinite narrazioni scaturite dalla penna di Bram Stoker, una preziosa ed inedita storia che, per alcuni versi, si propone - senza dichiararsi tale - come un “prequel” di Dracula. Lì, Renfield era un carattere "minore", eppure emblematico ed inquietante, ma anche  un'avanguardia del Male, un "apripista" della venuta del Conte Dracula in Inghilterra e un fedele servitore. Ricoverato - a causa delle sue stranezze - nel manicomio di Carfax, diretto da Jack (John) Seward, i "compagni" del manipolo di avversari del capostipite di tutti i vampiri letterari, lo attenzionano presto, comprendendo che le sue visioni e la sua incoercibile tendenza alla zoofagia, non sono semplicemente espressione d'una psicopatologia delirante, ma segnali dell'arrivo imminente dell'oscuro signore a cui s'è convertito. Poi, precocemente, Renfield esce di scena, quando Dracula s'installa, con il sue corredo di casse di legno piene di terra transilvana, all'interno delle rovine dell'antica abbazia diruta, situata proprio accanto al manicomio Renfield era ricoverato.

Renfield è un discepolo di Dracula (che è, in fondo, un’incarnazione dell’Oscuro Signore) e da questi abbagliato da promesse di immortalità, si è convertito al suo Verbo. Ma alle lusinghe da cui è stato catturato non seguirà nulla: gli toccherà morire, non senza che prima Van Helsing e i suoi collaboratori abbiano compreso il suo ruolo cruciale, e senza alcuna redenzione.

Il libro di Renfield ci racconta tutto quello che "Dracula" non ci dice su di lui. Anzi, propone un paradossale rovesciamento di prospettiva: la "vera" storia è quella raccontata ora, frutto della trascrizione fedele dei diari di Seward, così come lo erano state le registrazioni scritte predisposte dagli altri protagonisti della storia che si erano affidati a Bram Stoker solo per avere un racconto edulcorato e fruibile al grande pubblico, espungendo tutti quei dettagli che avrebbero potuto ingenerare allarme e, soprattutto, relegando la storia ad un ambito fantastico e di fiction. L'opera di Lucas appare, a tutti gli effetti, come uno "pseudo-biblion": a distanza di quasi 40 anni, il dottore Jack Seward, psichiatra e direttore del Manicomio di Carfax, decide di rivedere tutti i suoi appunti (alcuni dei quali registrati, con tecnologia - per quei tempi all'avanguardia, con dittafono), a trascriverne alcune parti ancora mancanti e a prepararli per la stampa, aggiungendo alle trascrizioni dei colloqui con Renfield dei suoi commentari.

Alla pubblicazione a stampa, provvederà il suo bis-nipote, Martin Seward, dopo il fatidico 11 settembre e l’attacco alle Twin Towers.

In questo percorso si indovinano, dunque, alcune date cruciali.

La premessa a firma di Jack Seward è datata 1939 e corrisponde all’intenso lavoro di revisione compiuto dallo stesso Seward sui suoi appunti e sulle sue registrazioni cliniche relative al “caso” Renfield, mentre quella del bis-nipote Martin viene elaborata qualche tempo dopo la tragedia delle Twin Towers.

Perché queste date-snodo?

Probabilmente perché l'autore (Tim Lucas), attraverso le parole del fittizio Martin Seward, ravvisa in Dracula una grande metafora del Male.

Jack Seward si decide a sciogliere la riservatezza sui suoi appunti integrali alla vigilia della 2^ guerra mondiale, intravedendo un fosco futuro per l'umanità e per l'Inghilterra, ma non riesce nel suo intento di procedere alla pubblicazione, anche perché gli eredi di Bram Stoker minacciano azioni legali e considererebbero il disvelamento come uno scoop mendace e lesivo dei diritti d'autore.

Riesce nell'intento Martin, dopo le torri gemelli, mettendo a mano ad un ulteriore revisione del diario del bisavolo e licenziandolo alle stampe nel 2004..

Dracula è divenuto un personaggio letterario, protagonista di serial cinematografici e TV, fenomeno cult tra gli adolescenti (con le nuove interpretazioni degli epigoni del vampiro che, in fondo, sono "buoniste", umanizzanti e, nel complesso, rassicuranti, tali da indurre un abbassamento della guardia) e tutto ciò ha fatto perdere il senso del pericolo incombente e della minaccia che il vampiro continua a rappresentare per l’Umanità intera come incarnazione del male.

Secondo Martin Seward, dopo il disastro delle Torri Gemelle, occorre dare un segnale e solo la pubblicizzazione della "vera" storia può servire ad alzare il livello di guardia nei riguardi degli assalti del Male, sempre rinnovati, attraverso il reclutamento di adepti fanatici che spianano la strada della sua venuta.

In questo senso Renfield rappresenta il prototipo del fanatico fondamentalista che si converte alla causa predicata dal suo Maestro con tutto se stesso, anima e corpo.

Così afferma, infatti, Martin Seward nella post-fazione all’opera diaristica e clinica scritta dal suo bisavolo:

È vitale che Dracula non sia ricordato come il pallido nobiluomo romantico interpretato da Frank Langella o da Gary Oldman, vestito come un capocameriere e che fa svenire le donne parlandogli di amore eterno. Dracula non fu un Elvis ribelle con un mantello in pelle nera: fu una piaga per l’umanità, e venne ucciso una volta per tutte dal mio antenato e dai suoi più cari amici. È morto, sì, anche se le brame che gli diedero vita ancora sopravvivono: la sete di sangue e di potere, il bisogno di conquistare il mondo, la morte e la distruzione, l’orrore e l’Apocalisse. Anche Renfield vive ancora, nelle legioni di fanatici religiosi e politici che credono di poter sopravvivere all’Apocalisse, aiutandola a manifestarsi e rimanendo quanto più vicino è possibile all’epicentro… solo per scoprire che proprio loro saranno i primi a soccombere alla sua furia (ib., p.294).

In questo senso, se Dracula diventa un’icona universale del male, capace di sedurre e di conquistare con arti sottili le sue vittime, entrando nella loro mente, prima ancora che succhiandone il sangue, Renfield viene ad assumere il ruolo altrettanto cruciale del fanatico neo-reclutato dal cui cieco entusiasmo dipende la forza del padrone che lo ha abbindolato e che lo usa per i suoi fini, ma che è pronto cinicamente a giocarselo quando non gli sarà più utile.

E’ anche chiaro che Martin Seward sia semplicemente un avatar dello stesso Tim Lucas che con le parole citate – e, in verità, in tutta la postfazione, ricca di riferimenti al crollo delle Torri Gemelle – mette nero su bianco con forza ed evidenza il suo pensiero sulla natura del Male e sui modi possibili per combatterlo, avvertendo che con esso non bisogna in alcun modo giocare né che si debba edulcorarlo, poiché l’“ammorbidimento” delle sue rappresentazioni mediatiche apre inevitabilmente la strada all’acquiescenza e al rischio di esserne sedotti.

E, d’altra parte, non a caso, in un recente romanzo di John Marks, un cattivissimo e crudele vampiro transilvano (nei panni di Ion Torgu, un criminale rumeno ricercato da molte polizie dei paesi dell’Est) cerca di sbarcare negli Stati Uniti, proprio attraverso i media (John Marks, West side Transilvania, Edizioni e/o, 2010). Nel romanzo, Evangeline Harker (come il Jonathan della narrazione di Stoker), produttore associato di una prestigiosa trasmissione televisiva, si reca in Romania per stabilire i contatti con questo Ian Torgu e ne è fatta prigioniera, mentre con l’inganno il suo sequestratore-vampiro cerca di sbarcare negli Stati Uniti, utilizzando come leva irresistibile l’attenzione che i media potrebbero riservargli. E questo vampiro non ha nulla a che vedere con i vampiri “buoni” delle saghe più recenti: è un nemico temibile che avanza con il favore di servitori che gli spianano il terreno.

Il testo di Lucas offre, naturalmente, molti altri punti d’interesse e soprattutto il fatto che si presenta come un avvincente caso clinico, che viene studiato da Jack Seward con metodica positivista, nel tentativo di comprendere le ragioni di un delirio accompagnato da comportamenti bizzarri e di offrine – per così dire – un’epigenesi, alla luce delle prime esperienze precoci del suo paziente.

In questo, riflette un momento cruciale nella nascita della moderna psichiatria, tra le esperienze-teatro della grande isteria studiata da Charcot alla Salpétrière di Parigi sino all’emergere dei grandi clinici di inizio Novecento (Krapaelin) o dei fondatori della diverse forme di approccio psicoterapeutico, a partire dai primi passi della psicoanalisi, (Freud, Jung, Binswanger), ricordando che una parte della grande clinica psichiatrica si invischiò presto, sull’onda dello scientismo, in un furore classificatorio e descrittivo che portò molti grandi clinici dell’epoca ad una vera e propria corsa verso l’identificazione di nuove ed insolite sindromi da battezzare – eventualmente – con il proprio nome.

Di questa tendenza della clinica psichiatrica a cavallo tra Ottocento e Novecento, possiamo menzionare il singolare caso della “dromomania” letteralmente inventata da un medico francese di Bordeaux (di cui riferisce Ian Hacking, nel suo I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas) oppure il fenomeno altrettanto eclatante - nel nostro secolo - dell’esplodere della clinica psichiatrica in rivoli e rivoletti di diagnosi da “repertorio” (vedi le continue edizioni e i periodici rimaneggiamenti del DSM, il più famoso repertorio statistico e diagnostico dei disturbi psichiatrici di marca nord-americana che ha colonizzato l’Europa), in funzione della possibilità di creare delle Associazioni scientifiche che si occupino di specifiche – ed insolite - sindromi e di una migliore definizione dei criteri diagnostici da utilizzare con l’applicazione e l’affinamento – ovviamente - di terapie farmacologiche mirate e, il più delle volte, costose (il che significa importanti sponsorizzazioni da parte delle case farmaceutiche).

Jack Seward, nell’accostarsi allo studio di Renfield visto come “caso” clinico singolare non si risparmia nulla, esaminando in maniera minuziosa tutti i suoi comportamenti e le sue idiosincrasie, non limitandosi soltanto a stendere un repertorio dei più grossolani fenomeni psicopatologici che egli manifesta. E, nel fare ciò, con pazienza e dedizione, utilizza le strumentazioni più moderne e all’avanguardia – per quel tempo. Come, ad esempio, la tecnica di registrazione stenografica, per captare nella loro interezza i colloqui psichiatrici e le narrazioni di Renfield, oppure la registrazione manuale stenografica.

La costruzione del “caso” Reinfield si allinea così con i più celebri casi clinici, tramandati sino a noi dai grandi psichiatri che si considerano i capostipiti della psichiatria attuale e “inventori” del caso clinico, come descrizione “scientifica”, non esente da qualità e artifici narrativi, in primis Freud Jung o Binswanger: come nel procedere di Freud che, all’esposizione del caso clinico faceva seguire un’epicrisi con i suoi commenti e le sue deduzioni e arricchimenti dell’impianto teorico già da lui messo a punto, anche nell’esposizione della “vera” storia di Renfield, le trascrizioni delle “confessioni” di Renfield e le accuratissime descrizioni dei suoi comportamenti bizzarri (confluenti in una sorta di esame “psichico” che - nella psichiatria - è l’equivalente dell’esame obiettivo dell’ammalato nella Medicina generale, internistica o chirurgica), si affiancano ai commentari di Seward, alle sue considerazioni personali, ai suoi interrogativi, in un procedere in cui alle misure coercitive della vecchia psichiatria (la cella spoglia, la camera di contenimento per le gravi ed intense bouffée di agitazione psicomotoria, la contenzione con camicia di forza) si alternano forme di approccio “gentile”, fondate sulla comprensione e sull’empatia.

L’attualità sta anche nel fatto che Seward è un uomo del suo tempo che, sofferente di vicissitudini personali non sempre liete, travasa – a volte – questo suo malessere nella pratica clinica, proiettando su Renfield i suoi stessi turbamenti – se non psichici – quanto meno esistenziali. E, si sa che, per quanto si dica o ci si richiami ad una presunzione di puro scientismo nell’approccio alla malattia mentale, lo sguardo clinico dello psichiatra non può mai essere oggettivo al 100%, ma risente indubbiamente degli occhialacci di legno della sua personale prospettiva inquinata da emozioni, sentimenti e dalla pressione di fatti privati che si infiltrano nella relazione con l’altro da sé-paziente, portandolo ad essere – per questo – un guaritore “ferito”, non immune da contaminazioni e da comportamenti devianti (emblematica in questo senso, passando ad un altro tema della letteratura noir, il caso di Hannibal Lecter, psichiatra e serial killer).

L’approfondimento clinico va avanti sino a quando Seward – con il conforto e il supporto di Van Helsing e degli altri, ma anche per il sopraggiungere di fatti nuovi ed inequivocabili – comincia a rendersi conto che dietro il delirio di Renfield c’è forse qualcos’altro che attiene ad un altro livello di conoscenza, ad altre realtà, ad altri mondi e lasciare campo al sospetto che Renfield sia un grande manipolatore e, forse, un veicolo di un’altra entità che lo possiede e lo utilizza per i suoi fini, rivelando la sua vera natura di “guardiano sulla soglia tra la follia e il male”.

Di questa specifica fascinazione di Reinfield, oscillante tra caso psichiatrico e portatore del Verbo di Dracula, imprigionato nel suo corpo (ma anche nella cella manicomiale o costretto nei legacci della camicia di forza o incatenato al muro) e desideroso di raggiungere con le sue visioni un luogo altro, dà ampio risalto Alessandro Defilippi, nella nota finale che correda il volume, dal titolo “La follia e il corpo: le maschere di Renfield” nel cui contesto viene sviluppato - quasi paradossalmente - il tema della “redenzione”.

"...paradossalmente, "Il libro di Renfield" è anche un romanzo (o meglio, come abbiamo visto, un metaromanzo) sulla redenzione. E' simbolica la prigionia di Renfield, prigionia quasi indifferente per lui, abituato a rigori assai più severi, come quelli della sua vita e del suo corpo. E' sempre il corpo, infatti, la sua vera reclusione che Renfield cerca duii superare nella fantasia di divenire un non-morto, di sfuggire quindi alla sua caducità, di farsi, in qualche misura, spirito, indipendente dalla carne se non come nutrimento." (Defilippi, p.306)

 

Dal risguardo di copertina

Uno dei personaggi più misteriosi e inquietanti del "Dracula" di Bram Stoker è senza dubbio Renfield, il pazzo zoofago rinchiuso nel manicomio di Carfax: da lui ha addirittura mutuato il nome una sindrome patologica caratterizzata da un quadro psicologico disturbato che scatena nel malato l'impulso irrefrenabile all'assunzione orale di sangue. Se la figura di Dracula è stata vista da alcuni studiosi come l'immagine specularmente rovesciata di Gesù Cristo, analogamente Renfield è stato sovente indicato come il Giovanni Battista di Dracula, colui che ne prepara la venuta e ne annuncia il tenebroso messaggio... Ma cosa si nasconde dietro la maschera del folle? Chi è realmente Renfield e cosa ha scatenato la sua follia? La risposta è in questa sorta di "spin-off" del romanzo di Stoker, che scava nella psiche del personaggio Renfield utilizzando lo stesso racconto reso da questi al dottor Jack Seward. Un modo per affrontare con un taglio diverso uno dei capolavori indiscussi delta letteratura horror, colmandone i vuoti narrativi e alimentandone il mito senza mai attentare all'integrità del testo originale.

 

lucas.jpgNota bio-bibliografica sull’autore

Nato a Cincinnati (Ohio) nel 1956, Tim Lucas è un affermato critico cinematografico, curatore della pluripremiata rivista Video Watchdog, attiva da oltre venti anni.

Oltre a varie attivita' come sceneggiatore, biografo e poeta, Lucas è autore di Mario Bava: All the Colors of the Dark (2007), considerato il saggio più approfondito ed esaustivo sul cinema del grande Maestro italiano dell’horror, premiato con L’International Horror Guild Award.

Il libro di Renfield e' il suo secondo romanzo dopo Throat Sprockets (1994), ispirato a una graphic novel.

 

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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