(Maurizio Crispi) Marco Aime, antropologo e viaggiatore nella vita, nel suo "Rubare l'erba. Con i pastori lungo i sentieri della transumanza" (Ponte alle Grazie, Collana Saggi, 2011) racconta - in una breve opera a metà tra il saggio antropologico e un amarcord, la vita dei pastori conosciuti nella sua infanzia, quando passava le vacanze dai nonni a Roaschia (Piemonte) che, a quel tempo, era il "posto dei pastori". In genere, non è ortodosso il coinvolgimento emotivo in uno studio antropologico, ma in questo caso il risultato è stato affasciante, a metà tra una ricerca e un racconto poetico.
Marco Aime rende omaggio con questo piccolo saggio alle sue radici. La sua famiglia, infatti, è originaria di Roaschia, un piccolo centro (oggi annovera solo 160 abitanti circa) in una stretta valle alpina del Cuneese in Piemonte, dove - per tradizione - la popolazione si era sempre divisa in due tra pastori (gratta) e stanziali (uvernenc), in eterno conflitto tra loro. Nella valle, povera e poco illuminata dal sole, l'agricoltura si poteva praticare soltanto a livelli di sussistenza: e per sopravvivere bisognava necessariamente imboccare le strade e le vie del mondo.
E così c'erano i "cavié" (commercianti di capelli) e gli anciuè (i venditori di acciughe), i quali entrambi a piedi o con un carrettino se ne andavano in giro, spingendosi verso la pianura o a volte sino al mare, comprando e rivendendo.
Ma, soprattutto, c'erano i pastori i quali dovevano stare sempre in movimento, d'estate spingendosi in quota sugli alpeggi e scendendo ai primi freddi in basso a valle, a casa con la famiglia quasi mai e dal proprio focolare allontanandosi a volte di centinaia di chilometri verso le piane fertili e ricche di buona erba per i propri greggi, emblematicamente nomadici e protagonisti d'una dura vita che nulla aveva a che vedere con l'idealizzazione leopardiana del pastore che parla con la luna; sempre, in una difficile convivenza con i contadini stanziali, ma ciò nondimeno complementari ad essi, poiché in condizioni di vita dure per entrambe le tipologie si creavano delle forme di "convivialità" e di convivenza che, a ciascuno, davano risicati vantaggi.
E, poi, al cambio della stagione, di nuovo ognuno per la sua strada.
Non c'era mai riposo per i pastori nomadi e, sempre, con i loro greggi in movimento dovevano fare attenzione, perché erano perennemente nella scomoda posizione di chi stesse "rubando l'erba altrui".
Poi, nel dopoguerra e con l'avvento della motorizzazione, tutto questo mondo di mestieri e di attitudini che si basava su di un duro lavoro e su sacrifici pressoché continui si sfaldò rapidamente e, presto, ne rimase soltanto il ricordo.
Cosa è rimasto di quel mondo rievocato nostalgicamente da Aime che attinge anche ai sui ricordi da bambino: qualche vecchio pastore che è divenuto stanziale, mentre altri si sono trasferiti altrove e sono divenuti tiolari di "latterie" (guarda un po'!).
Altri come Toni e Margherita, grazie alle cui testimonianze, egli ha parzialmente costruito questo saggio di antropologia-amarcord, hanno voluto tenere con sé qualche pecora, come ricordo nostalgico del loro mondo sempre in movimento, sinché è stato possibile.
Quando il giovane Marco era bambino e non voleva mangiare, i nonni gli dicevano "Dovresti andare un po' con i pastori, vedi che impareresti!". Perchè la vita dei pastori era dura, sempre a viaggiare, dal paese scendevano nelle Langhe, nel Monferrato fino alla pianura dalle parti di Piacenza, per "rubare l'erba" di altri, sempre stranieri e sempre visti come invasori. E questi pastori sono uguali a tanti altri: i pastori abruzzesi in cammino verso la Puglia non erano molto diversi.
I pastori sono camminatori per forza.
Poichè le pecore non hanno erba tutto l'anno negli stessi posti, i pastori si devono spostare e lo sanno fare: "Uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre".
Il vecchio Toni, che racconta la sua vita ad Aime, racconta i pastori come persone di cui gli stanziali (i contadini, gli "uvernenc") sospettavano, dice "Noi pastori eravamo sempre dalla parte del torto, perchè rubavamo l'erba". Nelle sue parole c'è rassegnazione, la rassegnazione di chi sa di dover subire per forza qualche discriminazione, qualche insulto. I pastori si sentivano fratelli con gli zingari. Venivano chiamati i "gratta" dai contadini.
"Si cercava di passare nei posti non troppo affollati, di nascondersi un po', sempre in colpa, sempre dalla parte del torto, lungo strade poco battute dove, magari, incontravi altri come te. Altri con le pecore, altri che venivano dalla montagna, altri che andavano".
Dal libro di Aime esce la nostalgia per i pastori erranti, erano brava gente che sopravviveva alla povertà senza aspettarsi altro dalla vita.
E' un libro consigliato a tutti quelli che vogliono camminare sulle tracce dei pastori, nelle valli piemontesi, ma anche sui tratturi d'Abruzzo o nei supramonti sardi.
Secondo alcuni, dovrebbe essere un libro da far leggere ai più giovani nelle scuole per ricordar loro come fosse il mondo sino a pochi decenni addietro e quanto duro potesse essere il vivere quotidiano, prima della moderninazzione e del consumismo.
Luca Gianotti della Compagnia dei Cammini ha intervistato in esclusiva Marco Aime che ha parlato anche di turismo responsabile, di cui è esperto.
Dal risguardo di copertina. "Partivano. La gente di queste parti è sempre partita". I ricordi di Toni e Margherita, un anziano pastore e sua moglie, disegnano a tratti scarni ma decisi la loro storia, la storia della gente di Roaschia, nel Piemonte rurale di oltre mezzo secolo fa. Pastori, acciugai, venditori di capelli, uomini perennemente in viaggio: l'etnografo si chiede se abbia senso parlare di "radici", quando esistono "terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre", quando si è costretti a fuggire dal proprio villaggio per scampare alla povertà, per sopravvivere, "rubando l'erba" per le proprie pecore. Eppure continuiamo a pensare che il nomade, il randagio, il bastardo, siano l'eccezione, e che il sedentario sia la norma.
Marco Aime, che in quelle terre è nato e cresciuto, stempera il "dato" antropologico e oggettivo in un racconto vivido, "in prima persona", e proprio per questo vitale, nonostante la patina del ricordo e della nostalgia. La vita del pastore, segnata dall'universale diffidenza che i sedentari covano per i migranti di ogni tempo e luogo, diventa l'emblema - e la guida - di tutte le nostre peregrinazioni: "È quello il suo sapere, uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre".
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