(Passaggi. In fuga verso la fine del Millennio. Cap. 2° - Ombre) - Mentre continuavo ad andare, barcollando dalla fatica, nella mia mente febbricitante si sono accese le visioni.
Mi aggiravo nel dedalo buio di strade squallide di una città deserta e sprofondata in un silenzio innaturale: se questo è possibile immaginarlo, era il silenzio d’una città ferma e morta in cui nulla, nessun macchinario, sia più funzionante e in cui nemmeno la corrente elettrica corra più nei fili.
Nel mio cammino incerto, reso esitante di fronte a questa totale mancanza di segni di vita, nelle mie orecchie c’era soltanto il rimbombo dei miei passi e il loro eco riverberato ossessivamente,mille e mille volte, alle pareti degli alti edifici spogli che fiancheggiavano le strade, le finestre prive di infisse a fissarmi come orbite vuote.
E, improvvisamente, vidi che alle porte delle case si affacciavano e venivano fuori - lenti e in profondo silenzio - uomini e donne, prima alla spicciolata, poi sempre più numerosi; e,ancora, benché la moltitudine crescesse a vista d’occhio, continuavo a non udire nessun rumore di passi quasi stessi assistendo alla marcia d’un esercito di ombre chiamate a raccolta per qualche imperscrutabile disegno.
Ciascuno di questi spettrali viandanti portava sulle braccia tese ieraticamente davanti a sé un fardello. Guardando meglio, il fagotto informe era un bambino: e tutte le età erano rappresentate, neonati, bimbi più grandicelli, ragazzini alle soglie dell'adolescenza. Dall’aspetto e dalle posture che questi fardelli mantenevano, era come se gli esserini fossero del tutto morti anche se ancora non irrigiditi, perché nella traslazione a cui i loro corpi erano sottoposti vedevo chiaramente il ciondolio delle teste innaturalmente reclinate e l'oscillazione di gambe e braccia cascanti verso il basso e molli come le membra di fantocci disarticolati.
Gli uomini e le donne con i loro fardelli andavano confluendo in gruppi sempre più numerosi a costituire una dolente processione - dolente per me che osservavo sbigottito - e procedevano in silenzio, senza dare mostra di alcuna fatica.
E ricordai allora la mia fatica - e il mio dolore - nel trasportare verso il luogo della sua sepoltura un mio cane morto quando era ancora caldo, ma senza più tono muscolare, prima del sopravvento del rigor mortis: era tutto cedevole come un sacco pieno di materiale incoerente, tanto che era difficile tenerlo assieme compatto ed era come se sfuggisse da ogni parte e i miei sforzi nel tenerlo raccolto tra le braccia si moltiplicavano e mi rendevano esausto.
Ma, nello stesso tempo, sempre senza produrre alcun suono e con espressioni assenti, gli occhi persi nel vuoto, quegli uomini-ombra mi passavano accanto come automi impegnati con distacco in un compito ordinato da padroni invisibili. Sembravano non notarmi affatto, nulla facevano per scansarmi ed ero io che ogni volta dovevo spostarmi dalla traiettoria di questo loro movimento cieco ma sicuro, anche se immaginavo che il loro moto, avendo la qualità immateriale dell’allucinazione e del miraggio, avrebbe potuto attraversare il mio corpo e la mia sostanza; ma forse, riflettevo io stesso ero privo di qualsiasi sostanza e non ero che ombra tra le ombre .
Contemplavo stupefatto la moltitudine che si andava assiepando in tutti gli spazi disponibili che si stendevano all’interno del mio campo visivo, negli anfratti delle strade e nello slargo più aperto della piazza dove tutte le vie confluivano: centinaia e centinaia di uomini e donne che continuamente rigurgitati dai ventri delle case si andavano ammassando in una folla sempre più fitta.
La folla in marcia si andava gonfiando come la marea che risale impetuosa la bocca di un fiume, una moltitudine in cammino (trasognata e silente e privata pure di qualsiasi suono - brusio, sporadici colpi di tosse, scalpiccio di piedi) che, sotto la spinta esercitata da tutti i nuovi sopraggiunti, debordava nelle strade laterali.
E, così, ognuno andava avanti con il suo carico, indifferente e ignaro degli altri.
Poi, dopo un poco di questo andazzo, riuscivo a vedere soltanto migliaia e migliaia di teste brulicanti rivestire con un tappeto vivo e palpitante le strade delle città e tutte scorrere senza fretta nella stessa direzione con un flusso costante e uniforme, ognuno senza più anima, con il proprio bambino morto teso davanti a sé come ad offrirlo in un ultimo sacrificio collettivo, l'olocausto dell'anima.
Ancora, ho visto miriadi di uomini e di donne, chiusi nella solitudine dei loro loculi, che - lontano dallo sguardo degli altri ( ma chi può più interessarsi del prossimo? ) - con rasoi affilati cominciavano a radersi lentamente per una cerimonia di purificazione o per ritornare per pochi attimi ad essere di nuovo come bambini.
Dopo essersi interamente cosparsi di schiuma da barba o di semplice saponata, con rasoi affilati asportavano con cura i capelli le sopracciglia i peli delle ascelle i peli pubici e poi anche quelli di tutte le altri parti del corpo. E poi, dopo aver portato a termine questa operazione, saggiavano con un lento passaggio della mano, sia a pelo che contropelo, il risultato ottenuto, verificavano se al tatto si apprezzava una sufficiente levigatezza delle superfici appena rasate. E quando invece il movimento contropelo evidenziava ancora qualche residua rasposità, allora si soffermavano a far passare ancora una volta il rasoio, vincendo il tremito della mano.
L’operazione della rasatura è sintona con l’ usanza di certi culti iniziatici secondo la quale è prescritto che gli officianti siano puri nel corpo e che questa purezza si possa raggiungere liberando il corpo dall’ingombro di ogni pelo e di ogni capello - peli e capelli essendo espressione di impurità. E il raggiungimento dell’obiettivo di purificazione corporea serve a sottolineare il raggiungimento di una condizione di purezza dello spirito che nel corpo è ospitato.
Dopo il completamento dell'operazione della rasatura, che è quindi un rito di purificazione, uomini&donne rimanevano in silenzio a contemplare il risultato specchiandosi a lungo - per ore - di faccia di profilo di tre quarti, accostando il proprio volto allo specchio appannandolo con il respiro e quasi incollandovi sopra gli occhi per esaminare scrupolosamente ogni centimetro della propria pelle nuda alla ricerca di quei pochi peli ancora sopravvissuti; con specchietti mobili forniti di manico direzionabile esaminavano con cura gli angoli più riposti della loro pelle, intervenendo con un tocco del rasoio qua e là per perfezionare il risultato raggiunto; e, infine, ormai glabri come bambini appena nati, con la pelle liscia e pulita, andavano a distendersi su una stuoia sul pavimento nudo al centro della loro stanza spoglia, al buio, e per ore rimanevano rannicchiati in posizione fetale, immobili, in attesa di far crescere dentro di sé la determinazione a sacrificarsi per mettere alla prova un proprio sogno di immortalità, cospargendosi di benzina e dandosi fuoco come i bonzi o come Jan Palach, il martire di Praga; e mentre, nell’evolversi di questo sogno, il loro corpo ardeva come una torcia, gli uomini e le donne ponendosi come osservatori di se stessi in punto altro, guardavano la propria anima levarsi in forma di nebbia colorata assieme al fumo e ai vapori dal corpo immobile, che - ormai prossimo a carbonizzarsi - si spacca e si raggrinzisce tra fiamme giallo-arancione, silente, senza che si levino grida di lacerante dolore, e ascendere verso l’alto, come la fenice dei miti che sempre rinasce dalle proprie ceneri.
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