Bisogna essere sempre con i sensi all'erta, quando si bighellona in giro per una città.
L'amante delle panchine potrà sempre avvistarne una, abitata o meno, da documentare e da ricordare.
In fondo, ogni singola panchina può essere memorabile.
E quale miglior modo per documentarla, se non fotografandola (o filmandola)?
Il "cercatore di panchine", quindi, dovrebbe essere sempre armato di macchina fotografica, pronta all'uso, per poterle fissare all'istante.
Alcune panchine, specie se "abitate" offrono delle immagini inusitate ed irripetibili.
E, spesso, le immagini colte all'istante possono essere rivelatrici di qualcosa che ad occhio nudo non si arriva a scorgere bene.
In alcuni casi, si può avere l'impressione di muoversi all'interno del famoso film di Michelangelo Antonioni, Blow Up, ispirato al racconto Le bave del diavolo dell'argentino Julio Cortázar e che, a suo tempo, fece scalpore, sia per alcune sequenze per la sensibilità del tempo considerate ardite, sia perchè offrivano una riflessione sulla capacità dell''"occhio fotografico di "vedere" cose che ad occhio nudo non si possono notare.
Poi, dopo l'innovazione introdotta dal film di Antonioni sulla "visionarietà dell'arte fotografica il tema si è quasi banalizzata (basti pensare all'indagine sui documenti fotografici che Michael Blomqvist, il giornalista protagonista della Millennium Trilogy di Stieg Larsson compie su alcuni documentazioni per immagini che gli sono state fornite dal commitente della ricerca in cui si impegnerà).
In alto si vede la foto che ha stimolato queste mie considerazioni.
La sua location è uno dei giardinetti che abbelliscono il Thames Path sulla sponda nord del Tamigi, abbastanza vicino a Shadwell Basin.
Il quando è una mattina di aprile, piuttosto grigia, ma con gli alberi e i prati già adornati di sontuose fioriture.
In un anfratto isolato, ho scorto l'unico occupante di quell'angolo del parco e della panchina.
Barbuto, con un cappello di lana calzato sin quasi agli occhi e con uno zaino in spalla, alto e macilento.
Lo ho osservato a lungo, non visto.
Con le gambe strette in modo difensivo e rannicchiato su se stesso (ma alla postura contribuiva lo zaino tenuto sulle spalle), manipolava qualcosa tra le mani.
Forse si accingeva a rollare una sigaretta, oppure a farsi una canna.
Ma, ad un certo punto, si è guardato in giro sospettoso.
Appena mi ha visto dall'altro lato della radura, il giovane si è alzato e se ne è andato velocemente.
Ma, del resto, sin dall'inizio, la sua postura - accomodato com'era sull'orlo della panchina - denotava precarietà e un senso immanente di provvisorietà.
Non dava l'idea di chi occupa lo spazio circostante con sicurezza e auto-consapevolezza e di chi, sedendosi su di una panchina, dichiara con la sua rilassatezza, che quello spazio - fintantochè se ne starà seduto lì - è suo e soltanto suo.
La scelta tra le due ipotesi enunciate rimane indecidibile.
Sono riuscito a scattare una foto prima che si accorgesse della mia presenza e che si inquietasse, non tanto per la foto, ma piuttosto per la mia involontaria irruzione in una situazione in cui riteneva di poteva operare indisturbato.
Quando con il senno di poi si osservano le foto scattate, si possono fare tante congetture ed ipotesi.
Nascono anche tanti interrogativi che però rimarranno senza risposta.
Fotografare la realtà, scendendo nei dettagli, ci offre uno strumento per conoscere meglio ciò che ci circonda e ci consente di raccogliere del materiale vivo per raccontare delle storie.