La mia prozia Irene (la sorella della nonna materna), donna energica e volitiva (vissuta sin quasi a cent'anni) aveva una sua ricetta per preparare delle "palline" dolci, realizzate riciclando le bucce d'arancia, che a questo scopo venivano religiosamente conservate (la mia famiglia - vivevamo proprio accanto, in due appartamenti comunicanti) eraq mobilitata nella raccolta, naturalmente.
Quando, da piccini, io e altri nipoti andavamo a casa sua in visita, lei da uno degli anfratti di un grande armadio le tirava fuori e a ciascuno di noi ne dava una da mangiare - una per visita, la parsimonia era d'obbligo.
Rivestite di zucchero critallino, erano squisite, buonissime.
Le papille gustave - lo dico adesso da adulto - letteralmente urlavano dal piacere...
E' uno dei ricordi gustativi più saldamente stabilito nella mia memoria degli anni d'infanzia.
Se ci penso, mi pare quasi di sentirne il gusto, in cui il dolce dello zucchero e quello amarognolo dell'arancia si sposavano in un felicissimo connubbio.
L'altro ricordo che ne ho è questo: dopo averle preparate - ma le alchimie della preparazione mi erano del tutto sconosciute - le teneva ordinatamente allineate su di un vassoio e ricoperte da un panno sopra il ripiano di una ggrande stufa a legna di gres che era collocata in uno slargo del corridoio di casa sua, perchè si asciugassero ed assumessero la necessaria consistenza.
Anche se, di tanto in tanto, entravo in esplorazione a casa della prozia, più o meno in missione segreta, ne potevo sentire soltanto il profumo che si prigiobava da sotto quel panno, ma non osavo allugare la mano ed arrafarne una.
Per di più, spesso, seduta al calduccio accanto allo stufa a sferruzzare c'era la Vincenzina, una corpulenta signora di mezza d'età con un parrucchino in stile tordella (aveva perso , non si sa come, tutti i capelli) e quindi i dolcetti erano per irraggiungibili.
Non potevo osare: se fossi stato scoperto - come minimo - la prozia mi avrebbe inseguito per tutto la casa, tutta in nero, agitando un sottile ago, con il quale quando compivo qualcuna delle mie monelleria, si proponeva di pungermi la lingua, tanto per infliggermi un'esemplare punizione.
Da allora non le ho mai mangiate, se non una volta quando ricevetti come regalo un pacchettino prezioso confezionato in una bottega artigianale di specialità gastronomiche, realizzate seguendo antiche (e semplici) ricette.
Era un'autentica godurie mangiarne...
E siccome solo una ce ne era concessa per volta (senza diritto di repllica), era obbligo assaporarla a piccoli morsi, facendo durare ogni frammento il più a lungo possibile e giochicciandoci tra la lingua e i denti.
Scartabellando all'interno di un libro di cucina che usava mia madre (il classico " Talismano della Felicità", con il quale si sono formate ai piaceri e agli oneri della gastronomia generazioni di giovani spose) ho trovato un sottilissimo foglietto (quasi della consistenza di una velina) ritagliato da una antica distinta bancaria (allora, con grande parsimonia, si riciclava tutto) contenente la semplice ricetta per la preparazione di questa prelibatezza: la regolare scrittura inclinata vergata con penna ed inchiosto (inchiostro del calamaio, sembrerebbe) e piena di svolazzi è presumibilmente quella della mia prozia.
Ed ecco la ricetta, semplicissima.
Palline di buccia d'arancia e mandarino
Tre giorni in acqua spesso cambiata.
Bollire per mezzora (arancia) o venti minuti (mandarini).
Sgocciolare bene.
Tritarle finemente e unirle con eguale quantità di zucchero.
Mettere sul fuoco e rimestare finché si ottiene pasta densa.
Raffredate se ne fanno palline che si rotolano in zucchero cristallino.
Nel socializzare la ricetta, invito chiunque si vorrà cimentare nella preparazione di questa goloseria a farmi fare un assaggino. Quindi, amici e amiche, cominciate a conservare le bucce d'arancia o di mandarino.. E sono aperte le prove...
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