(Maurizio Crispi) Il Papa si dimette. Questo, in sostanza, ci ha detto la notizia di ieri 11 febbraio 2013, rimbalzata dalla Radio alla TV ai quotidiani e alla Rete.
E' una notizia che colpisce, ovviamente.
Dirò qui quello che la stampa allineata non dice, perchè in linea di massima, i commenti che ho sentito cercano di trovare delle giustificazioni ed un senso, in merito soprattutto ad un processo di secolarizzazione della Chiesa di Rona: dirò il mio pensero personale, insomma che solo questo vuole rimanere.
Non a caso è stato sottolineato che, a memoria storica, l'unico Pontefice che abbia rinunciato al suo mandato, sia stato - oltre settecento anni fa - Celestino V che Dante, desigandolo sinteticamente cone "colui che per viltade fece lo gran rifiuto" - colloca tra gli ignavi, alle soglie dell'Inferno, dando forza alla concezione del Divin Poeta che considera l'ignavia addirittura peggio del peccato, perchè come le non-scelte, le rinuncie (che sono un mancato esercizio del libero arbitrio) lasciano l'Uomo fuori da tutto (non pecchi, ma nemmeno fai un esercizio di bene).
Il Papa, dunque, rinuncia, si dimette: in ciò rivendica un suo diritto naturale di uomo che diventa portare di una carne e di uno spirito sofferente, ma perde di carisma.
Noi, comuni mortali, - per di più non possiamo dimetterci dalla vita, solitamente: siamo tenuti a berne il calice sino in fondo, senza sconti.
Il Papa, in quanto rappresentante di Dio in terra, nominato da un consesso di cardinali dovrebbe mantenere il suo posto sino alla fine, portandone il fardello con cristiana ed ecumenica rassegnazione.
Ciò, farsi carico dei fardelli della Comunità che guida come un pastore, dell'Umanità in genere e delle sue personali sofferenze (e/o dubbi) è - e dovrebbe essere - parte integrale della sua missione.
Vorrei ricordare la figura di Papa Giovanni Paolo II. Papà Wojtyła, pur ammalato e provato, esercitò sino all'ultmo le sue funzioni e, attraverso dedizione e abnegazione, ma anche con l'accettazione della sua personale sofferenza, acquistò un potente carisma anche agli occhi di coloro che non erano particolarmente praticanti e seguaci della fede cattolica, ma che erano toccati dritto al cuore da quella figura ripiegata, sempre più fragile e provata che accettava di vivere pubblicamente, senza sconti, il martirio che la sua carne mortale gli infliggeva.
Ricordao vivdamente il modo in cui mia madre, già anziana, seguiva le comparse pubbliche di Giovanni Paolo II. Era commossa nel vedere la fatica e la sofferenza che attraversavano quel corpo, ma nello stesso rinfrancata dalla prova di carattere e dalla testimonianza che ogni singolo atto del Ponterfice assumeva (prove che - come accadeva con lei - erano di conforto agli gli anziani, ai sofferenti, ai malati), facendogli acquistare un impagabile varore carismatico e di sostegno spirituale.
Con la rinuncia di Papa Benedetto XVI si apre una nuova maniera di intendere la figura del Pontefice: nè più né meno di un burocrate che, dopo essere stato alla guida della Chiesa di Roma, ad un certo punto, decide di andarsene in pensione o di dimettersi.
Nel Buddismo ciò non sarebbe concepibile.
Il Dalai Lama è l'incarnazione vivente del Buddha e tale rimane sintantoché è in vita.
Solo alla sua morte, gli emissari della fede buddista andranno alla ricerca di possibili candidati alla nuova reincarnazione di Buddha, cercando dei bambini nati in quel giorno e in quell'ora, corrispondente al momento del decesso del Buddha.
Il Dalai Lama, in quanto incarnazione del Buddha, non potrà mai andare in pensione: è il Buddha vivente.