Quando vado in campagna, trovo sempre la spianata davanti alla casa invasa dalle foglie secche. Una delle cose che mi prefiggo è quella di toglierle via.
E le foglie secche, dalle nostre parti, non arrivano solo d'autunno, ma ci sono anche in primavera e d'estate: basta una giornata più calda e tante folgie cascano giù dagli ulivi e da altre piante...
Se non svolgo quest'attività, non sono pienamente soddisfatto della giornata trascorsa lì.
Soltanto dopo - se rimane del tempo - faccio degli altri lavoretti.
Il business delle foglie secche è un must: se siamo d'inverno (o comunque nella stagione buoma), le foglie le brucio (e anche questa cosa mi piace parecchio). D'estate, mi limito ad accumularle in un punto dove poi accenderò il fuoco, quando sarà possibile e, per fissarle in qualche modo, faccio delle stratificazioni con altri detriti da giardino che devono essere combusti. I materiali più pesanti sono utili anche perchè trattengono le foglie dall'essere disperse dal soffio del vento e il vanificarsi della mia opera solerte (che sooggettivamente ritengo importante e fondamentale).
Ogni volta mi costa una grande fatica fare questo lavoro: radunare le foglie, raccoglierle a palate, infilarle in un grande secchio di plastica e trasportarle sino al luogo dove - o subito o in un prossimo futuro - arderanno.
Eppure, malgrado la fatica, non sono veramente contento, se non quando ho terminato.
C'è appena il tempo di contemplare l'opera compiuta e già bisogna andare via, perchè la giornata s'è conclusa.
So che rapidamente, in un ciclo eterno ed inarrestabile, lo spazio davanti alla casa, sarà ricoperto da un tappeto di foglie morte.
Mi chiedo il perchè, allora, di questo affannarsi. Si potrebbe lasciare tutto com'è, tanto domani le foglie secche saranno di nuovo lì.
Ieri, riflettendoci su, provavo a darmi delle risposte.
Innanzitutto, c'è la ricompensa dell'intimo piacere di un lavoro semplice, portato a termine, i cui risultati sono concreti e tangibili.
In secondo luogo, credo, interviene un elemento più universale che è quello del fare "manuntenzione" delle cose che ci circondano.
E' come se avessimo l'oscura consapevolezza che nulla è per sempre e che tutto ciò che che fa parte dellla nostra esistenza (comprese le relazioni) è destinato al decadimento, alla corruzione, al degrado, sulla base della spinta di un forte movimento entropico verso la disorganizzazione e il disordine.
Allora, nei limiti delle nostre risorse, ci sforziamo di ostacolare (e quanto meno rallentare) il decadimento, con la certezza che la nostra è come la fatica di Sisifo, condannato a spingere in eterno il grande masso che scivolerà giù non è appena sulla cima del monte.
Dedicandoci a queste forme di manutenzione ordinaria e straordinaria, nel nostro piccolo (e pur sapendo che ciò che facciamo è solo una goccia nel vasto mare della dispersione entropica), ci confortiamo, perchè introduciamo nel nostro mondo angusto una parvenza di ordine e, intanto, abbiamo la certezza che ci stiamo prendendo - in qualche modo - cura delle cose.
Il nostro riparo dall'inarrestabile declino e rispetto al morire delle cose.
Il nostro riparo dalla consapevolezza che, non appena si nasce, già si comincia a morire.
E, così, spazziamo via le foglie morte...