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Ho sognato che facevo una lunga fila in auto per sottopormi in un drive-in al tampone.
La coda era lunghissima e si procedeva lentamente.
Tutto qui.
Niente di più e niente di meno.
Stimolato da questo frammento onirico, voglio affrontarequi un discorso sulle varianti del Coronavirus. E sulle varianti delle varianti. Ebbene, ne nascono dovunque, ma secondo me - contrariamente a quanto comunemente viene propalato nei mezzi di informazione, non sono "da asporto".
Abbiamo già la variante inglese, quella sudafricana, quella brasiliana, quella francese e chi sa quante ancora se ne identificheranno...
E poi abbiamo le varianti che derivano da uno spillover dall'uomo infetto a certe specie animali e che poi tornano al'uomo ulteriormente modificate: vedi, ad esempio, il caso, che ha avuto una certa notorietà nella stampa degli ermellini d'allevamento danesi (e non solo).
Dovunque si comincia a sequenziare l'RNA virale in maniera estensiva si identificano le varianti: da più parti si suggerisce insistentemente che in una certa percentuali di casi infetti bisognerebbe procedere di default al sequenziamento del genoma virale, proprio per identificare precocemente queste varianti e circoscrivere igli eventuali focolai.
La cosa curiosa è che le varianti vengono identificate con il riferimento allo stato dove dapprima sono state identificate (cioè sequenziate) e chepossono esserepotenzialmente più insidiose, quanto a rapidità di contagio e ad eventuale letalità.
Ma questo ci mette su di una pista sbagliata.
Cioè, nei diversi luoghi dove si riconoscono delle varianti già descritte, ci si mette alla ricerca del "paziente zero" senza peraltro mai trovarlo, come ad esempio, in Italia , in una località abruzzese dove in quattro famiglie, per un totale di 76 persone, è stata identificata la variante inglese, senza che nessuno dei soggetti fosse mai stato all'estero.
Il fatto vero - e che dovrebbe essere dichiarato a chiare lettere - è che quanto più il virus si replica tanto più muta casualmente, per via di errori di trascrizione da parte dell'RNA messaggero. E che, se da un lato ci possono essere delle mutazioni poco vantaggiose per la replicazione del virus, se ne possono verificare altre che, invece, rappresentano un vantaggio addizionale: ed è così che quella mutazione prende piede. Va da sé che le mutazioni sono assolutamente casuali, ma in ogni caso - presumo - il range delle possibili varianti più vantaggiose è relativamente piccolo, stante le piccole dimensioni del virus in questione.
Il virus, semplicemente, compie il suo lavoro che è quello di riprodursi il più possibile.
In questa danza delle varianti sembra di vedere tornare il balletto di denominazioni legato a certe malattie infettive del passato, prima che ne fosse identificato l'agente patogeno, come ad esempio nel caso della lue (sifilide) che, a seconda, veniva indicata come "mal francese" (ovvero "morbo gallico") o "mal napoletano", o nel caso del virus HIV e delle sindromi ad esso correlate che, prima di assumere una denominazione univoca, venivano indicate con il riferimento a particolari categorie di persone, più suscettibili o vulnerabili a contrarre il morbo.
E' una tendenza antica che tende a ritornare oggi (benché si sappia infinitamente di più sulle malattie a trasmissione virale) e che riproduce dei pregiudizi antichi ed irrazionali che tenderebbero a porre ciò da cui ci sentiamo minacciati in un luogo "altro" (e, possibilmente, anche lontano).
E ciò capita, malgrado i Centri che si occupano di malattie infettive e l'OMS abbiano definitivamente sconsigliato di utilizzare nella nomenclatura di nuove malattie infettive qualsiasi riferimento geografico a specifiche regioni, stati o nazioni del mondo oppure a particolari gruppi etnici e/o sociali.
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