Siamo sempre alla ricerca di tracce del passato, di elementi e piccoli frammenti che possano aitarci a ricostruire un quadro più ampio del passato che ci consenta di rileggere il presente tenendo conto di radici e di filoni di pensiero che scendono indietro sino al passato più lontano. Ed è un compito che - per chi vada avanti con gli anni - si fa sempre più arduo, poichè spesso vengono a mancare i "testimoni" coloro che hanno vissuto in prima persona eventi remoti che ci riguardano. Per essere "accoglitore di memorie", occorre che ci siano stati dei "donatori" di esse: solitamente è così. Ma non tutto viene donato tempestivamente, oppure altre cose sfuggono alla narrazione, oppure altre ancora - che pure sono importanti - vengono taciute . Di altre che non possono essere trasmesse oralmente vengono lasciate tracce materiali.
E se, casualmente, rinveniamo qualcosa, una traccia, un piccolo documento, un oggetto, un pizzino scritto, un album di disegni, quel rinvenimento è una festa. Come quando un archeologo ritrova un frammento che lo riporta indietro nel tempo e gli consente di visualizzare una civiltà scomparsa o di dare vita a delle pietre altrimenti mute. E i grandi ritrovamenti avvengono spesso casualmente, quando si è abbandonata la volontà di trovare.
Ed è casualmente che mi sono ritrovato tra le mani una voluminosa opera in due tomi, proveniente dal passato, probabilmente di proprietà del nonno Giosué.
Si tratta del Nuovo dizionario dei sinonimi della Lingua Italiana di Niccolò Tommaseo (una "nuova" edizione "napolitana", eseguita sulla quarta milanese accresciuta e riordinata dall'autore), pubblicata Napoli presso Gabriele Sarracino nel 1859.
Sfogliando uno dei due tomi. le pagine si sono casualmente aperte in corrispondenza di quello che pareva essere un segnalibro, un esile foglio di carta quadrettato, ingiallito dal tempo. Solo che su una delle sue facce recava un messaggio.
Un messaggio emozionante per me. Quasi che il tomo di Tommaseo avesse avuto la funzione di Capsula del tempo oppure quella della proverbiale bottiglia che, recando sigillato dentro di sé un messaggio, arriva miracolosamente al suo destinatario designato dopo aver percorso i sette mari seguendo il capriccio dei venti e delle correnti.
Il biglietto vergato dalla mano della mamma (la cui scrittura masntenne poi abbastanza identica, solo diventando nei tardi anni un po' più spigolosa e tremolante) dice delle parole che mi riguardano direttamente.
Un messaggio segreto - con un chiaro riferimento al giorno della mia nascita - da seppellire dentro un libro, una traccia che doveva essere lasciata, forse perchè proprio io ne leggessi il messaggio a distanza di anni o forse soltanto perchè la mamma aveva bisogno di dire quelle parole a se stessa nell'unica maniera in cui la sua inflessibilità interiore le consentiva.
Se ne comprende meglio il contenuto se si pensa che la mamma (le fonti di ciò sono alcune mie zie) in pubblico non manifestava un eccedente amore nei miei confronti. Poche coccole, poche volte prendermi in braccio e tenermi così. Forse perchè non voleva in alcun modo che preferiva me a mio fratello che era stato sfortunato e che non era nato sano.
Dovette essere quello, la scoperta della malattia di mio fratello, un grande trauma che i miei genitori cercarono di fronteggiare al meglio delle loro risorse e delle loro conoscenze.
Dopo due anni circa, arrivai io: per i miei dovette essere una festa la mia nascita, quando si resero conto che ero passato dalle strettoie del parto senza inconvenienti.
Il principio che papà e mamma adottarono (questa fu una delle poche cose che appresi direttamente dalla mamma, pochi mesi prima della sua dipartita), era quello dell'assoluta eguaglianza di comportamenti nei confronti miei e di mio fratello.
E lei con me, temendo di eccedere e di infrangere questo principio, non si abbandonava mai ed evitava le effusioni: soprattutto in pubblico, mentre in privato, quasi furtivamente ci si abbandova per brevi momenti (secondo un'altra testimonianza che mi è stata trasmessa).
Questo biglietto, fortunosamente trovato, testimonia quanto invece lei sia stata lieta e fiera della mia nascita e che sia andata alla ricerca di ponti verbali per celebrare una nuova vita che era nata il 9 agosto 1949 con il suo carico di speranze: una radiosa aurora dopo la sofferenza e nella sofferenza.
Ma la bellezza interiore di papà e mamma fu comunque quella di essere riusciti sempre, momento per momento, la mala sorte in gioia e in celebrazione del trionfo della vita e della speranza, sfuggendo alla tentazione del farsi vittima, del cadere nel gorgo del pessimismo e della rinuncia alla lotta testarda per una costante ridefinizione dei termini.
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