Pensavo a qualcosa mentre mi trovavo a camminare lungo vie deserte, di mattina prima dell’alba, confortato dal silenzio surreale e ovattato che mi circondava.
Mi dicevo che questi miei pensieri erano da scrivere, per fissarli.
Ma di cosa si trattava?
...
Ah, sì! Ora ricordo...
Pensavo al fatto che troppo spesso viviamo senza pensare alla morte e al morire.
Viviamo, come se fossimo eterni, destinati a durare per sempre.
E in questo siamo profondamente egoisti nei confronti di quelli che, alla nostra dipartita, saranno lasciati indietro.
Mentre camminavo a passo svelto, ancora nel buio, mentre i primi chiarori stentavano ad arrivare, ho ripercorso alcune tappe della mia vita in funzione delle morti che si sono succedute.
La morte (le morti e le dipartite di cui sono stato testimone) sono state molte, alcune più dolorose di altre.
La nonna Maria, dolcissima.
La prozia Irene, devota di Salvatore.
Mio padre, scomparso tragicamente e - in un sol colpo - anche la cugina Elisabetta (entrambi periti nel disastro aereo di Punta Raisi nel 1972).
Il cugino Gabriele scomparso dall’oggi al domani, in un tragico incidente, quando ancora la vita doveva dischiudersi davanti a lui con tutti i suoi doni.
La mamma, di cui paventavo sempre la morte improvvisa per un qualsiasi accidente, ma che - malgrado le mie orribili paure - è campata a lungo, assolvendo alla sua missione e al suo voto di efficienza.
E mio fratello Salvatore, ultimo della serie, tralasciando tutte le altre persone di famiglia, fratelli di papà e mamma, mogli e mariti.
Tralascio anche le morti improvvise di alcuni compagni di scuola, tutte morti anticipate, ma nella statistica.
Naturalmente, le morti più cogenti sono state quelle delle persone con cui ho vissuto.
Di queste morti, a parte il dolore, mi è stato risparmiato tutto, all’infuori del dolore.
Già, perchè la morte di qualcuno è fatta anche di infiniti, fatiganti, strascichi amministrativi e burocratici, di cui, sin dal primo giorno bisogna occuparsi.
Da queste cose sono stato protetto, direi. E, forse, a dismisura. Qualcun altro si è occupato di tutto, lasciando a me, soprattutto nel caso della morte della mamma solo alcuni compiti marginali.
La mamma, quasi all’ultimo, quando sembrava che stesse per andarsene (ma poi ci regalò alcuni altri giorni della sua compagnia prima di congedarsi per sempre) mi indicò un cassetto della sua stanza, dicendomi che lì dentro c’erano i documenti del cimitero. E questa cosa almeno la sapevo quando lei se ne andò. Ma, per tutte le altre, buio totale.
E dunque non ho imparato nulla, in corso d’opera: mi è sempre sfuggita la possibilità di costruirmi un prezioso bagaglio di know how.
E con la morte di Tatà ho sbattuto drammaticamente contro il muro delle mie incompetenze ed ignoranze.
Ho dovuto fare tutto da me: ed è stato doloroso, forse ancor di più che dello scontrarsi con il trauma della perdita.
Ora vorrei istruire qualcuno, possibilmente mio figlio Francesco, lasciando delle memorie scritte, e forse anche cominciare a spiegargli le cose passo passo, in modo da trasmettergli l’esperienza (dolorosa) che ho acquisito in questi mesi e fare in modo che lui, almeno, sia pronto e sappia quali sono i passi fondamentali da compiere.
E vorrei anche trasmettergli qualcosa dei ricordi di famiglia e delle storie delle mia vita, in modo tale, invitandolo a registrare in forma audio o scritta quanto io possa dirgli, in modo tale che quando io non ci sarò più o quando la memoria comincerà a tradirmi, gli rimanga una traccia scritta, con dettagli, eventi, date, nomi di persone, che - per quanto riguarda la mia famiglia - una volta scomparso io sarebbero persi per sempre.
Spesso gli adulti, quelli di una generazione avanti, sono “egoisti”, perché non volendo pensare alla propria morte (che potrebbe arrivare tra l’altro, non per vecchiaia, ma inattesa e precoce), mettono la testa sotto la sabbia ed evitano di intraprendere passi per istruire i propri figli sul morire e sulle incombenze post mortem che li attendono.
E non ci sono più nella nostra società anziani di riferimenti che possano sopperire con la loro saggezza e con le loro competenze all’ignoranza dei giovani su alcune questioni essenziali.
E non dovrebbe essere così.
Occorre vivere ogni giorno della propia vita come se potesse essere l’ultimo.
Occorre prepararsi e lasciare tutto a posto, in modo che chi rimane possa avere la strada spianata.
Il consumismo smodato dell’Occidente che include anche il consumo usa-e-getta dei giorni da vivere di ciascuna vita, e a vivere costantemente proiettati nel futuro di nuove acquisizioni, ci distoglie da questo compito pensoso e dalla necessità di mantenere costantemente un solido ancoraggio nel passato e nei luoghi (incluse le persone) da cui veniamo.
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