Sabato 19 settembre 2015, abbiamo colto l'occasione e siamo andati fuori Palermo. Dopo la settimana di stress del ricovero di Gabriel, era proprio quello che ci voleva.
Siamo partiti non troppo presto, giornata incerta, con il cielo che a tratti si rannuvolava - o per meglio dire - si rivestiva d'una patina bianco-lattiginosa che velava il sole, e ci siamo diretti alla volta di San Vito Lo Capo.
Perché proprio a San Vito?
Mah!
Nel mio desiderio c'era quello di arrivare in un luogo dove si potesse stare a contatto con la natura, ma senza grandi folle, ma dove - nello stesso tempo - il mare fosse facilmente accessibile per noi e per Gabriel.
L'idea del bagno di folla vociante e chiassosa mi fa orrore: con l'età sono decisamente peggiorato.
Ma forse anche perché San Vito Lo Capo, fa parte ormai del mio bagaglio di luoghi fantastici, per quanto sia nello stesso tempo una location reale.
E' il fatto che, per la sua posizione geografica, e per la difficoltà e le lungaggini per raggiungerlo via terra lo abbia sempre immaginato come un'isola, un lembo di terra non appartenente alla Terraferma, così come sono molti dei luoghi utopici a cui si può arrivare dopo interminabili viaggi che mettono alla prova la pazienza del viandante o attraversando passaggi perigliosi, elementi che tendono a fare di un luogo - se non consegnarlo di peso al lavorìo della fantasia - in qualche misura una "capsula del tempo".
Nel mio ricordo, San Vito Lo Capo è un luogo di una bellezza magnifica, schietto e sempre poco affollato: ma troppi anni sono passati, in verità, dalla mia precedente visita (forse più di 20, con certezza almeno 15).
Ci siamo fermati, lungo la strada, poco prima di "Purgatorio" (una frazione di Custonaci, il cui nome ha fatto ridere Maureen) attratti da quello che sembrava un luogo di ristorazione rustico e qui abbiamo mangiato: Gabriel - a causa del protrarsi degli scossoni del viaggio in auto, cominciava a manifestare segni di insofferenza.
Ma anche noi avevamo un certo languorino.
Un posto che prima non esisteva del tutto: prima la strada che correva dal bivio con la Statale Palermo-Trapani era totalmente desertico.
Il posto rustico quanto basta era affollato di turisti che mangiavano indolenti seduti a tavoli di tavole di legno quasi grezze con molto gusto e indolentemente.
Anche noi ci siamo assoggettati al ritmo messicano.
Cibo buono, non c'è che dire: alla fine, a coronamento, un'interessante granita di fico d'india.
Abbiamo ripreso la nostra via e, in poco, abbiamo percorso i venti chilometri che ancora ci separavano dalla nostra meta, passando per Castelluzzo che, sempre, per me ha avuto la caratteristica di un'assolata e desertica cittadina messicana con il suo stradone, fiancheggiato da case cubiche con porte e finestre sbarrate e ricoperte da grandi tendoni colorati, a protezione dele soglie (pensate per tenere fuori sia il caldo sia le mosche) sbatacchianti nel vento, per non parlare della sua chiesetta baroccheggiante che sembra venir fori dritta dritta da uno spaghetti-western.
E, finalmente, passando il bivio che porta a Monte Cofano e, poco dopo, quello che sale verso la frazione di Macari, ci si para davanti il grumo di case ai piedi del promontorio che come un grosso dito di gigante si protende verso il mare, coronato - dal lato di Trapani - da una torre di una guardia e - sul versante di Palermo- da un alto faro bianco svettante verso il cielo.
Ma a parte questa visione, subito prima della nostra discesa, San Vito non l'abbiamo vista: un sacco di automobili, tantissimi motorini, tantissima gente (nei prossimi giorni è fissato un "Couscous Fest" - dal 18 al 27 settembre - una 10 giorni gastronomica con tanta musica di bande moderne e di musicisti di spicco, tra i quali uno dei più attesi era sicuramente Caparezza, ma anche Elio e le Storie Tese).
Dovunque lodevoli divieti di transito all'interno del paese e nei pressi della spiaggia, con predisposte aree di parcheggio - a pagamento o gratuite - molto distanti dal mare e servizi-navetta gratuiti.
A giudicare dal numero di auto, il paese e la spiaggia dovevano essere stipati di gente, di cui tanti sicuramente attratti dal Festival del Couscous.
Ho detto a me stesso: "Nooooooo! Anche San Vito Lo Capo è stato corrotto dal furore vacanziero che tutto livella!" e ho concluso che lì non potevamo fermarci: il prezzo per raggiungere la spiaggia sarebbe stato troppo alto.
Di San Vito Lo Capo ho il vivido ricordo di un pernottamento durante un mio trekking a piedi da Castellamare a Trapani seguendo le anfrattuosità della costa, ma ricordo anche tante escursioni con gli amici tra l'esordio della primavera e dell'estate, con la possibilità di decidere all'ultimo minuto di un pernottamento improvvisamente in una delle tante stanze di case private messe a pensione.
Ma, ora, quel tempo credo che sia finito: e, anche se non ho constatato direttamente con i miei occhi, penso che la cittadina sia stata corrotta dal verbo vacanziero che funziona come un trita-sassi capaci di annullare ogni diversità e ogni caratteristica unica e originale e che sia pieno di gastronomie che vendono kebab ad ogni pie' sospinto, hamburger di scarsa fattura e poi sacchetti di patatine a profusione, oltre ad ogni genere di junk food, e negozi di ammennicoli per turisti made in Hong Kong.
Rimane solo il posto: ma probabilmente è poco più di un guscio vuoto ed insulso.
La grande montagna alle spalle con i suoi pinnacoli arditi e le gigantesche fessure dove si incunea il vento fa da testimone muto allo scempio.
Ho pensato di dirigerci alla volta della vecchia tonnara (la Tonnara del Secco, a circa tre chilometri dal borgo abitato , in direzione di Scopello) che da sempre mi è piaciuta e di cui pure avevo il ricordo piacevole di pernottamenti improvvisati, sia con il sacco a pelo sia con la tenda nel corso di avventurose trasferte.
Qualche trasformazione del paesaggio circostante, sopravvenuta in anni recenti o addirttura in fieri, mi impedisce inizialmente di beccare la traversina che alla tonnara conduce: è in corso di edificazione nella grande piana desolata che faceva da contorno alla tonnara, un grande resort, ben più di un ettaro di terreno totalmente recintato, un grande edificio in posizione asimmetrica rispetto al resto della proprietà e una grande piscina in corso di definizione attorno alla quale si ergono numerose palme appena messe a dimora per creare la parvenza di un'oasi nel deserto; e poi viali e vialetti e tante altre piante messe pure a dimora, assieme a essenze della macchia mediterranea, quali l'ulivo, il cappero e la palmetta nana. O è una proprietà privata (ipotesi improbabile) o è un investimento per farne un resort di lusso (magari per banchetti o matrimoni), ma è sicuramente uno stravolgimento del posto e delle sue caratteristiche.
La tonnara è un vecchio amico e la rivedo con lo stesso piacere. Non delude le mie aspettative: per le sue caratteristiche può accogliere soltanto pochi. Non ci sono comodità né attrazioni vacanziere, soltanto duri scogli e tratti pianeggianti che ti fanno l'occhiolino, ma che sono aspri e pieni di sassi puntuti che li rendono simili al letto di un fachiro. Ma se ci si accontenta, si può ritrovare con facilmente qualche posticino sul quale accovacciarsi in posizione precaria o addirittura distendersi: l'acqua che lambisce la grande discesa inclinata che serviva per mettere in mare i barconi della tonnara è lambita da una leggera risacca e appare chiara e trasparente.
C'è un silenzio profondo, non offuscato dalle chiacchiere dei pochi convenuti o dal frastuono di device elettrronici.
Insomma, l'antica magia la ritrovo in pieno, assieme a quella di esplorare la scogliera alla ricerca di piccole pozze formatesi con la risacca delle onde più grosse e sul loro contorno delle piccole spiaggette di ciottoli.
Ma tutto è in decadenza. La tonnara sta crollando: il suo muro perimetrale possente è decorato di cartelli che recitano "Pericolo di crollo". Alcune parti dello stesso muro ammalorate sono crollate, lasciando intravedere squarci di azzurro e parte delle strutture interne.
Le porte e le finestre sono sbarrate.
C'è un piccolo varco lungo il muro: le pietre sono crollate e, facendo attenzione, si può sgusciare all'interno.
Quello che si vede dentro è pura desolazione paesaggio di rovine industriali post-apocalittiche.
Grandi capannoni, alcuni con il tetto crollato: questa di San Vito era una tonnara di pesca e di lavorazione dei prodotti derivanti dal tonno. Da qui la sua struttura molto complessa: è un peccato che debba andare in malora così.
Così come è appare soltanto come un relitto del passato, in attesa del definitivo tramonto e del momento in cui tutto tornerà ad essere polvere e pietre, mentre invece potrebbe essere una testimonianza del passato, ricca e articolata.
Potrebbe essere restaurata questa tonnara per farla divenire un centro multi-funzionale che possa ospitare eventi correlati con il mare o anche un museo interamente dedicato alla storia della Pesca del Tonno.
Se fossimo in un altro Stato accadrebbe esattamente questo: la struttura non sarebbe lasciata andare alla deriva in questo modo.
Dopo l'esplorazione delle pozze, qualche lancio di pietre nell'acqua, splash splash, e un bagnetto ristoratore per me, con una breve nuotata (ma da quanti mesi non nuotavo?), ci siamo avviati per fare ritorno alla macchina e, quindi, a casa. Ma, prima di partire, non rinuncio alla possibilità di una sommaria esplorazione dei meandri dell'immensa fabbrica della tonanra, approfittando di un varco nel muro che mi consente di sgusciare all'interno: e qui tocco con mano la desolazione, ma nello stesso tempo di un reperto di "archeologia industriale".
Maureen, spinta da me, ha colto l'occasione per correre per alcuni chilometri lungo la strada statale che fu teatro, sino a non molti anni addietro, della "mitica" 100 km podistica da Trapani a Palermo, poi miseramente affondata nelle panìe di amministrazioni che non hanno un occhio benevole per queste manifestazioni.
Terminale della corsa di Maureen è stato Castellamare del Golfo, in una pasticceria-gelateria del luogo, assai rinomata per tutte le sue produzioni artigianale, a partire dalle cassatelle con ripieno di ricotta fresca che, in particolar modo, al mattino sono un must assieme al caffé o al cappuccino.
Ma anche i gelati e le granite sono ottimi.
Con il bottino d'una bella guantiera di dolci abbiamo, infine, preso la via del ritorno, mentre il sole si tuffava dietro una cortina di nubi, lasciando impressa nella retina una pennellata di rosso acceso.
simbolo dell'intero territorio: la Tonnara del Secco, tappa obbligatoria per chi vuole conoscere la storia di questi luoghi. Degli aristocratici edifici facevano da contorno all'antica Tonnara, le cui reti venivano calate a pochi metri dalla riva per catturare i grossi tonni che in primavera percorrevano numerosi le acque del golfo di Castellammare nella loro corsa per la riproduzione. Chi ha avuto la fortuna di assistere alle mattanze di San Vito Lo Capo, ricorda che i proprietari se ne stavano con i loro ospiti comodamente seduti sul terrazzo del "Palazzotto" mentre, a pochi metri di distanza, la "ciurma" faceva mattanza. Le reti ormai non vengono più calate dal 1969, ma il luogo è ancora pieno di fascino ed i pescatori che lo frequentano raccontano volentieri come avvenivano le mattanze. Accanto agli immobili della tonnara si possono ancora oggi ammirare i resti di antichissimi impianti di lavorazione del pesce, che risalgono al IV secolo prima di Cristo. Qui si lavorava il pesce - anche tonni - che veniva catturato nel mare prospiciente. Le vasche erano realizzate in cocciopesto e "in elevato", con una canaletta di scolo per lo scarico delle acque della lavorazione a mare. Questa location è stata scelta per diversi film e fiction tra cui il famoso "Cefalonia". Nella foto, si può vedere uno scorcio della Tonnara del Secco, quando ancora aveva una parvenza di vita.
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